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Mille Piante

di Mile Kolev – C.so Unità d’Italia 65 – Piana Biglini Alba (Cn)
Piante da Frutto

Mille Piante

di Mile Kolev – C.so Unità d’Italia 65 – Piana Biglini Alba (Cn)
Piante da Frutto

kiwi, Actinidia chinensis 

Il kiwi, Actinidia chinensis, è un arbusto fruttifero originario della Cina coltivato un po’ ovunque, in giardini, orti e frutteti.
Il Kiwi è una pianta sarmentosa fittamente ramificata alta mediamente 8- 10 metri.

L’apparato radicale, poco profondo, è formato da radici carnose.

Il fusto è costituito da rami misti che portano gemme fruttifere e gemme a legno.
Sui tralci sono ben visibili foglie espanse cuoriformi di colore verde.
La piante di Kiwi sono specie dioiche: i fiori femminili e quelli maschili sono portati da piante diverse.
La fecondazione avviene mediante l’impollinazione anemofila (vento) e quella entomofila (insetti). Per favorire la fruttificazione occorre impiantare nelle vicinanze delle piante pistillifere almeno 1- 2 piante staminifere (maschi).
I frutti sono bacche pelose con buccia rugosa di colore verde marrone che protegge all’interno la polpa verde costituita da diversi semi di colore nero.
Coltivazione del Kiwi
Clima: il kiwi predilige il clima mite e le posizioni soleggiate riparate dai venti freddi.

Terreno: terreni ben drenati e con pH compreso tra 5,5 e 7,4.

Irrigazioni: regolari e abbondanti nei periodi siccitosi e nel periodo estivo.

Concimazione: effettuare concimazioni primaverili prima della fioritura e nel periodo di allegagione con concimi specifici e concimazioni autunno – invernali con stallatico o concime a lento rilascio.
Potatura del Kiwi
Il kiwi richiede interventi di potatura estiva ed invernale su entrambi gli esemplari.
Maturazione e Raccolta
La maturazione dei Kiwi avviene nel periodo dicembre – febbraio e poca in cui si effettua la raccolta scalare.
Conservazione di Kiwi
I kiwi si conservano per mesi in scatole di cartone posti in locali freschi e bui.
Malattie e Parassiti del kiwi
I kiwi sono piante resistenti, raramente vengono attaccate da malattie e parassiti.
Cure dei kiwi
L’attività di cura dell’actinidia chinensis si basa su scerbature, zappature e sostegni

Cose da sapere sul kiwi
I Kiwi sono frutti esotici che oltre ad essere consumati freschi vengono utilizzati per la preparazione di dolci, marmellate e in cosmesi per la preparazione di creme anti-age e maschere per la pulizia del viso.

Sono un frutto con molteplici proprietà ed apportano 60 Calorie per 100 g di kiwi.

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Agrumi – Limone

Il limone (Citrus limon (L.) Osbeck) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutaceae. Il nome comune limone si può riferire tanto alla pianta quanto al suo frutto.

Secondo degli studi genetici, il limone è un ibrido e deriva dall’incrocio tra l’arancio amaro e il cedro.
Storia
Sebbene le origini del limone siano incerte, si pensa che i primi luoghi in cui sia cresciuto siano la Cina, dove veniva coltivato già prima della dinastia Song (960-1279 d.C.), la regione indiana dell’Assam e il nord della Birmania.

Secondo alcuni studiosi, gli antichi romani conoscevano già i limoni. L’ipotesi è supportata dalle raffigurazioni di tali frutti in alcuni mosaici a Cartagine e affreschi a Pompei; tuttavia, secondo altri studiosi, è possibile che gli autori di quelle opere avessero importato gli agrumi o li avessero visti nei loro paesi di origine. Non ci sono infatti prove in ambito paleobotanico o letterario che avvalorino tale ipotesi.

Intorno al 700 d.C. il limone si diffuse in Persia, Iraq e Egitto. Dal termine persiano لیمو, che si pronuncia līmū e indica genericamente gli agrumi, deriva il termine “limone”.

Le prime descrizioni letterarie del limone si hanno in scritti arabi del X e XII secolo, ad opera di Qustus al-Rumi e Ibn Jami’. Gli alberi di limoni furono utilizzati inizialmente dagli arabi come piante ornamentali.

Le prime coltivazioni di limoni in Europa furono quelle di Genova nella metà del XV secolo. In seguito i limoni vennero introdotti in America da Cristoforo Colombo che ne portò alcuni sedi a Hispaniola.

In Europa la prima coltivazione di limoni è stata avviata prima dell’anno Mille in Puglia, sul Gargano precisamente in agro di Rodi Garganico ove ancora oggi viene coltivato una cultivar unica, il Limone Femminello, dai botanici ritenuta la più antica d’Italia, poi in Sicilia, dopo il X secolo e più tardi a Genova (a metà del XV secolo). I limoni compaiono nelle Azzorre nello stesso periodo, nel 1493, ad opera Cristoforo Colombo, che li portò fino all’isola di Hispaniola.

Nel 1747 il medico scozzese James Lind consigliò l’utilizzo del succo di limone come cura contro lo scorbuto.

Nel XIX secolo il limone iniziò ad essere coltivato intensivamente in Florida e California.
Morfologia
Il limone è un albero che raggiunge dai 3 ai 6 metri di altezza. I germogli e i petali sono bianchi e violetti.
Il frutto è giallo all’esterno e quasi incolore all’interno, di forma sferica fino ad ovale, spesso con una protuberanza all’apice e appuntito all’altra estremità. La buccia può essere da molto ruvida a liscia, più o meno foderata all’interno con una massa bianca spugnosa detta albedo. Solitamente i limoni si coltivano per la produzione di frutti ma la pianta può essere coltivata in vaso a scopo ornamentale. Per le coltivazioni in vaso è consigliata terra specifica per agrumi e il rinvaso annuale prima del ricovero invernale in serra.
In clima favorevole, il limone fiorisce e fruttifica due volte l’anno. La fioritura dura almeno due mesi e il frutto maturo può attendere altri due mesi sull’albero prima di venir colto, il che favorisce una raccolta sistematica. La fioritura primaverile produce i frutti migliori, la cui raccolta dura poi tutto l’inverno, da novembre ad aprile o maggio. La seconda fioritura, a volte forzata nelle piantagioni commerciali, avviene in agosto e settembre, i frutti si possono raccogliere da maggio in poi, subito dopo quelli invernali. In condizioni favorevoli, un albero adulto può dare da 600 a 800 frutti all’anno.
Varietà
I limoni sono coltivati in tutto il mondo in innumerevoli varietà che probabilmente neanche i botanici riescono a registrare correntemente. Le differenze tra di esse sono infatti riscontrabili prevalentemente nell’aspetto esteriore, mentre rimangono praticamente invariate sia le loro qualità alimentari che la relativa importanza economica. Il limone infatti, ben raramente viene consumato come frutto fresco, per cui cambiamenti minori di gusto non sono molto importanti. Per la lavorazione industriale vanno bene tutte le varietà, con l’esclusione forse di quelle poche che per il precoce deterioramento vengono consumate sul luogo di produzione. Sono così quasi ignote le varietà del “limone rosso” e del “limone dolce” che danno frutti sempre agri, ma nel contempo abbastanza dolci da poter essere mangiati come frutta fresca. Quando questi limoni giungono a maturazione si deteriorano nel giro di due o tre giorni, per cui logicamente vengono consumati dalla popolazione locale e rimangono sconosciuti su un mercato più vasto.
Usi
In media, la buccia del limone può raggiungere il 40% del peso complessivo, un altro 3% è rappresentato dai semi. Pur trattandosi di una media il dato fa capire che il frutto non viene coltivato solo per il succo. Dalla buccia, molto apprezzata per la produzione di canditi, si estraggono anche essenze e pectina. Dai semi si estrae l’olio e gli avanzi si impiegano nell’alimentazione animale.

Con la buccia del limone si produce un liquore, il Limoncello, nato in Campania e diffuso in tutto il mondo.
Il succo

Un bicchiere di limonata.
La parte del frutto più comunemente utilizzata è il succo che rappresenta fino al 50% del suo peso, contiene 50-80 grammi/litro di acido citrico, che conferisce il tipico sapore aspro e diversi altri acidi organici tra cui l’acido malico, l’acido ascorbico o vitamina C (0,5 g/l). Il succo pastorizzato si mantiene senza conservanti per almeno un anno e viene usato come ingrediente di vari alimenti e bevande. Il succo concentrato viene invece sottoposto ad ulteriore lavorazione e consumato nell’industria conserviera. Dal succo del limone si produce la limonata, una bevanda a base di succo di limone, acqua e zucchero.
L’olio essenziale

Olio essenziale di limone.
L’olio essenziale del limone è un liquido etereo e volatile con un colore che va da giallo a verde, una volta estratto per pressione meccanica mantiene l’odore della scorza, è quasi completamente solubile in alcol etilico a 96° ed è costituito prevalentemente da limonene e pineni (beta-pinene, alfa pinene, gamma terpinene). Occorrono circa tremila limoni per ottenere almeno 1 kg di essenza, e in genere i frutti verdi ne forniscono maggiori quantità. L’olio essenziale viene industrialmente deterpenato sia per distillazione sottovuoto che con l’impiego di solventi (CO2 supercritica). È impiegato principalmente nell’industria alimentare per il suo potere aromatizzante ed in quella profumiera. Nella produzione di detersivi vengono spesso impiegati i suoi sottoprodotti (terpeni, distillati dal succo e dalle “fezze” (residui fermentati di lavorazione industriale).
Usi farmaceutici
Anche in farmacologia il limone è molto apprezzato e le sue parti utilizzate sono il succo e il pericarpo (scorza). Il suo uso come farmaco era consolidato quando ancora non si sapeva nulla delle vitamine. Innanzi tutto ne veniva apprezzato il succo quale antiemorragico, disinfettante, diminuzione consistenza di feci (diarrea) e ipoglicemizzanti (tende a far diminuire il glucosio nel sangue). Nell’aromaterapia viene indicato come rinfrescante, tonico per la circolazione, battericida, antisettico, valido per abbassare la pressione arteriosa, utile per eliminare verruche, calli, gengive infiammate, per curare artrite e reumatismi, vene varicose, raffreddore, influenza. Era reputato indispensabile nella cura dello scorbuto, cosa ben nota tra i marinai che non mancavano di approvvigionarsi di limoni prima di ogni viaggio impegnativo.
il che rappresenta il 71% del fabbisogno giornaliero di vitamina C per una persona adulta, ed il 7% del fabbisogno di potassio, l’1% di calcio ed il 9% di magnesio.

In Sicilia, dove esiste da sempre il problema dell’acqua potabile, era in voga l’uso di immettere nelle riserve d’acqua vari limoni tagliati a metà. La gente sapeva per esperienza che i limoni disinfettano l’acqua e la ricerca moderna ha dato ragione a questa antica saggezza
Usi terapeutici
Il limone è il frutto che vanta il più vasto impiego terapeutico, e il rapporto fra limone e salute vanta una storia millenaria: dagli impieghi degli antichi Greci fino ai giorni nostri, gli esempi di applicazione del limone in medicina sono centinaia, un lungo elenco fatto anche di alcune pagine importantissime della storia della medicina, come la scoperta dello scorbuto di James Lind nel 1747, patologia dovuta alla carenza di vitamina C e curata con il succo di limoni e arance. L’elevata concentrazione di vitamina C contenuta nel limone rende questo frutto di notevole importanza per la tutela della salute. Inoltre, l’alto contenuto di vitamina C nel limone è utile per combattere i sintomi dell’influenza.

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Lime

La limetta o lima è un agrume verde derivato da diverse piante del genere Citrus, come ad esempio la Citrus aurantiifolia, la Citrus × latifolia, la Citrus hystrix, la Citrus glauca. È commercialmente nota come lime (IPA: /’laim/) o laim.
coltivata in California. La vera limetta dolce è la Citrus x limettoides che si coltiva in India, Palestina ed Egitto. Il suo frutto è succoso e pressoché privo di semi, tuttavia il gusto non è molto gradevole, in quanto poco agro; l’acidità di queste limette infatti, talvolta non raggiunge lo 0,1%. Il Citrus x limonia che non è propriamente una limetta, ma un ibrido tra il limone ed il mandarino; ciononostante, è molto simile alle limette, tanto da esser conosciuto come mandarin lime. Si coltiva in India, California e Australia, principalmente per la produzione di marmellate ritenute più gustose delle confetture di arancia.
Usi commerciali
La limetta viene coltivata soprattutto per la produzione dell’olio essenziale che si ricava dalla buccia. L’essenza è infatti molto simile a quella del limone ed è impiegata principalmente nell’industria alimentare per la produzione di bevande alcoliche e analcoliche, inoltre è molto apprezzata nell’industria dei profumi e dei detergenti. In ambito alimentare, solitamente viene abbinata alla dolcezza delle fragole o del lampone per aromatizzare la gomma da masticare.

La limetta è consumata di rado come frutto fresco, ma trova largo impiego in cucina, sovente in sostituzione del limone. Il succo viene aggiunto alle macedonie di frutta e ai frutti di mare, e spesso in combinazione con il curry. Rappresenta uno degli ingredienti principali della Torta di limetta, un dolce tipico della Florida.

Il succo del frutto è altresì utilizzato per la preparazione di diversi cocktail, quali Caipirinha, Daiquiri e Mojito.

Esistono differenti piantagioni di limette che producono solo piante a scopo ornamentale, trattandosi di una pianta sempreverde (come tutti i citrus) che, con le condizioni favorevoli, fiorisce tutto l’anno. I suoi piccoli frutti colorati sono pittoreschi, in quanto rimangono a lungo attaccati al ramo assieme ai fiori del raccolto seguente.

Grazie alla scoperta degli effetti antiscorbutici della Vitamina C, la limetta è stata introdotta dalla Royal Navy come ingrediente aggiuntivo per il grog, benché disponga di un tasso vitaminico inferiore rispetto ad altri agrumi – quali il limone – e venisse sovente miscelata in calderoni di rame; sostanza in grado di abbattere il potenziale antiscorbutico del lime.

 

 

 

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Arancia e arancia amara

L’arancio (Citrus sinensis (L.) Osbeck, 1765) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutacee, il cui frutto è l’arancia (detta nell’uso corrente anche “arancio”, come l’albero), talora chiamata arancia dolce per distinguerla dall’arancia amara. È un antico ibrido, risultato di un incrocio di oltre 4000 anni fa tra il pomelo e il mandarino.
Cenni storici
Originario della Cina e del sud-est asiatico, questo frutto invernale sarebbe stato importato in Europa solo nel XVI secolo da marinai portoghesi. Tuttavia alcuni testi antico-romani ne parlano già nel I secolo; veniva coltivata in Sicilia dove era chiamato melarancia, il che potrebbe significare che il frutto avesse raggiunto l’Europa via terra. Potrebbero essere corrette entrambe le teorie. Probabilmente l’arancio giunse davvero in Europa per la via della seta, ma la coltivazione prese piede solo nella calda Sicilia, dove la sua diffusione si arenò. Solo dopo secoli venne riscoperto dai marinai portoghesi.

Da notare che a Roma, nel chiostro del convento di Santa Sabina all’Aventino è presente una pianta di arancio dolce che secondo la tradizione domenicana è stata portata e piantata da San Domenico nel 1220 circa. La leggenda non specifica se il santo avesse portato la pianta dal Portogallo o dalla Sicilia, dove essa era giunta al seguito della conquista arabo-berbera.
Altri nomi dell’arancia
Nella letteratura del secolo XIX a volte l’arancia viene chiamata portogallo. In greco l’arancio si chiama “πορτοκάλι” (pronuncia: portocáli), in rumeno “portocală”, in albanese “portokall” e ancora oggi in arabo la parola usata per parlare delle arance è برتقال, burtuqāl, che ha soppiantato del tutto la parola persiana نارنج, nāranğ – letteralmente “(frutto) favorito degli elefanti” – da cui deriva “arancia” (e “naranja”, in spagnolo) e “narancs” in ungherese. Però in arabo il burtuqāl indica l’arancia dolce, mentre nāranğ (d’origine persiana) indica l’arancia amara.

Descrizione

L’arancio è un albero che può arrivare fino a 12 metri, dalle foglie allungate e carnose e dai fiori candidi. I germogli sono sempre verdi, mai rossastri. I frutti sono rotondi e sia la buccia sia la polpa sono del tipico colore arancione. La buccia è caratterizzata da una leggera ruvidezza che è diventata termine di paragone anche in campi totalmente diversi: parliamo per esempio di pelle a buccia d’arancia in cosmesi, o di superfici a buccia d’arancia in edilizia.

Il periodo di riposo dell’arancio è di soli tre mesi, per cui succede che l’albero fiorisca e fruttifichi contemporaneamente. I primi frutti si possono raccogliere in novembre (navelina), e gli ultimi a maggio – giugno (valencia late). Un albero adulto produce circa 500 frutti all’anno.
Sottospecie e varietà
L’arancio è l’agrume più diffuso nel mondo e se ne coltivano centinaia di varietà. Alcuni frutti sono a polpa bionda (ovale, biondo comune, navelina, washington navel, ecc.), altri a polpa rossa per via dei pigmenti antocianici in essi contenuti (moro, tarocco, sanguinello), alcuni più grandi e più belli, altri di aspetto più modesto e dalla buccia più sottile, ma più succosi e dunque adatti per spremute. Solo in Italia più di venti varietà vengono coltivate come frutta da tavola e altrettante per spremuta. Comunque, le arance dolci non vengono consumate solo come frutta fresca ma, soprattutto nel caso di quelle a polpa bionda, vengono utilizzate per la produzione di succhi (durante la lavorazione delle quali la buccia, preventivamente separata dal resto del frutto, viene sfruttata per estrarne l’olio essenziale in essa contenuto) e, in misura minore, per la produzione di canditi e frutta essiccata.

La definizione Arancia rossa di Sicilia è usata per individuare le varietà di arance polpa rossa (moro, tarocco e sanguinello) che rispettano quanto previsto nel relativo disciplinare “Arancia rossa di Sicilia IGP” (Indicazione geografica protetta).

A Ribera, in provincia di Agrigento, si coltiva l’arancia bionda della cultivar “Washington Navel”; in realtà le arance coltivate appartengono tutte al gruppo “Navel” (cioè arance ombelicate). A questo gruppo, oltre all’arancia suddetta, sono coltivate il “Brasiliano di Ribera”, la cv. W.N. 3033 Frost, Navelina comune, Navelina VCR (Vecchio Clone Risanato), la Navelina ISA 315 (in piccole superfici impiantate – in corso di reinnesto con W.N. per via della pezzatura dei frutti che risulta essere media). Sembra che le sue particolari qualità organolettiche siano molto apprezzate dagli intenditori, tanto che Arancia di Ribera è diventato un marchio DOP.

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Clementina

La clementina (Citrus × clementina) è un agrume, appartenente al gruppo degli ibridi fra mandarino e arancio amaro . Per questo motivo è anche comunemente conosciuta col nome di mandarancio.
Origine
Le prime menzioni scritte dell’ibrido risalgono al 1902.

Secondo alcune fonti, l’origine della clementina sarebbe accidentale, e il primo frutto fu scoperto da Fra Clément Rodier (da cui avrebbe anche preso il nome) nel giardino del suo orfanotrofio a Misserghin, Algeria. Si fa strada inoltre l’ipotesi che l’ibrido sia molto più antico e provenga dalla Cina o dal Giappone; il religioso algerino l’avrebbe solo introdotto nel Mediterraneo.

Dopo le prime ibridazioni agli inizi del XX secolo, fu presto evidente che si trattava di una nuova specie di Citrus (Citrus reticulata Blanco), dato che le caratteristiche rimanevano inalterate nel tempo e la riproduzione sistematica dell’agrume non dava alcun problema. Dopo decenni di coltivazione sperimentale i frutti conservavano le qualità dei primi ibridi, ed erano sempre più richiesti dal consumatore.
Dal 1940 la clementina è uno degli agrumi stabilmente presenti sul mercato italiano e, negli ultimi decenni, il frutto più venduto dopo le arance.
Descrizione
L’albero della clementina è assai simile a quello del mandarino, da cui differisce leggermente per le foglie che sono più grandi e più larghe e non hanno il caratteristico aroma del mandarino. Fiorisce e fruttifica lentamente e irregolarmente, in quanto molto suscettibile agli sbalzi di temperatura. Si ha una sola raccolta annuale tra novembre e gennaio.

Il frutto assomiglia al mandarino: le differenze principali sono da ricercarsi nel colore della polpa, decisamente più aranciato. Inoltre non è mai appiattito come i mandarini, ma sempre ben rotondo. Come il mandarino, si sbuccia e si divide in spicchi con facilità. Il gusto invece è più simile all’arancia, con un perfetto equilibrio tra l’agro e il dolce. Inoltre, a differenza del mandarino, gli spicchi della clementina sono quasi completamente privi di semi.

Le piantagioni più estese si trovano in Tunisia, Algeria, Marocco, Spagna, Italia (in Calabria, Puglia e Sicilia). Negli USA le clementine sono state coltivate fin dalla loro apparizione sul mercato, ma si sono veramente affermate solo dopo il 1977, anno in cui molti aranceti della Florida vennero distrutti da un inverno eccezionalmente rigido.
Impieghi
La clementina viene consumata prevalentemente come frutto fresco perché ha tutte le proprietà tipiche degli agrumi, incluso un elevato contenuto di vitamina C. È spesso preferita all’arancia in quanto non eccede mai in acidità e si sbuccia più facilmente.

In cucina, viene normalmente impiegata al naturale ma può essere utilizzata per succhi, marmellate, sorbetti o sciroppi. Nella produzione di cosmetici la clementina trova applicazione nella preparazione di lozioni tonificanti e maschere per la pelle.

In Italia sono particolarmente apprezzate:

la Clementina di Calabria, prodotto con Indicazione geografica protetta calabrese;
la Clementina del Golfo di Taranto, prodotto con Indicazione geografica protetta pugliese.

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Mandarino

Il mandarino (Citrus reticulata Blanco, 1837) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutaceae..
È uno dei tre agrumi originali del genere Citrus assieme al cedro ed al pomelo. Nel 2014, un lavoro scientifico ha chiarito la complessa sistematica degli agrumi definendo come tutti gli agrumi derivino da tre sole specie (mandarino, pomelo e cedro). Il mandarino ha certo acquistato importanza storica, in quanto si tratta dell’unico frutto dolce tra i tre originali. Da incroci con il mandarino si sono sviluppati quasi tutti gli agrumi che oggi conosciamo (es. limone, lime, arance).

Con successive ibridazioni e selezioni poi il mandarino ha originato moltissime cultivar di grande importanza commerciale, tra cui la clementina in cui il gusto amaro tipico delle prime specie si è stemperato in particolare incrociandolo con il pomelo.
Etimologia
Il nome mandarino si può riferire tanto alla pianta, quanto al suo frutto. Deriva dalla Cina tropicale, ed è identico al nome dato agli antichi funzionari politici imperiali (e alla relativa famiglia di lingue) in quanto questi erano vestiti con un mantello arancione. La coltivazione del frutto arrivò in Europa soprattutto in Portogallo e in Spagna, dove cominciò a diffondersi intorno al XV secolo.

Morfologia
Il mandarino è un arbusto poco più alto di due metri, in alcune varietà fino a quattro metri. Le foglie sono piccole e profumatissime. Il frutto è di forma sferoidale, un po’ appiattito all’attaccatura, e si lascia cogliere facilmente. La polpa è di colore arancio chiaro, costituita da spicchi facilmente separabili, molto succosa e dolce, entro la quale vi sono immersi numerosi semi. La buccia è di colore arancione, sottile e profumata, con un’albedo molto rarefatta e granulosa che consente una facile pelatura del frutto. Spesso la buccia addirittura si distacca dalla polpa ancora prima che il frutto venga colto dal ramo, il che gli conferisce un aspetto “ammaccato”. È particolarmente semplice rimuovere la buccia con le mani, proprio in quanto scarsamente attaccata alla polpa. Ha un profumo agrodolce e aromatico come la clementina; il gusto è molto dolce.

I mandarini sono normalmente consumati come frutta fresca o lavorati nella produzione di marmellate e frutta candita. Dalla buccia si estrae un olio essenziale che è un liquido di colore giallo oro leggermente fluorescente. Chimicamente si tratta perlopiù di d-limonene che spesso viene sofisticato con l’olio ricavato dal frutto intero non maturo.

Un albero adulto può dare da 400 a 600 frutti all’anno.
Alcuni agrumi chiamati “mandarini”:

Mandarino acerbo
Tenendo presente quanto sopra detto a proposito delle molteplici varietà ed ibridazioni di questo frutto, nonché della relativa incertezza sulla loro classificazione, si indicano di seguito alcune tra le più note denominazioni commerciali del mandarino.

Mandarino arena – Citrus reticulata Blanco ex Tanaka
Mandarino ponkan – Citrus reticulata Blanco ex Tanaka
Clementina – Citrus × clementina
Mandarino delizioso – Citrus × deliciosa Ten.
Mandarino satsuma – Citrus × unshiu Marcow.
Mandarino cleopatra – Citrus × reshni hort. ex Tanaka
Mandarino acido – Citrus × sunki (Hayata) hort. ex Tanaka
Mandarino tangerino – Citrus × tangerina hort. ex Tanaka
Mandarino tachibana – Citrus × tachibana (Takino) Tanaka
Mandarino calamondino – Citrus × madurensis Lour ; sinonimo × Citrofortunella microcarpa

Pompelmo
Apprezzato soprattutto per la realizzazione di succhi, il pompelmo è un agrume originario dell’India Occidentale.

Bergamotto
È un agrume dalle fantastiche note aromatiche. Raramente viene usato fresco ed è la base di molte preparazioni, dagli infusi ai profumi.

Kumquat

Il kumquat o cumquat(Citrus japonica tobbese Thumb., 1784), detto anche comunemente mandarino cinese o kingen, è un piccolo albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutacee.
Etimologia
Il nome comune “kumquat” deriva dalla pronuncia cantonese dei caratteri 金橘, gam1 gwat1, letteralmente “tangerino d’oro”.

Descrizione
Si presenta come un piccolo albero sempreverde, di 2,5-4,5 m, con rami fitti, e qualche volta piccole spine. Le foglie sono di un verde scuro intenso, e i fiori bianchi, nascono singoli o in gruppo dalle gemme.
Il frutto del kumquat, che ha lo stesso nome, sembra una miniatura ovale e lunga dell’arancia, lungo 3-4 cm e largo 2-4 cm. A seconda della varietà la buccia si presenta dal giallo al rosso e il frutto può essere ovale o rotondo. Il frutto viene prodotto generalmente dal tardo novembre fino a febbraio.

Differisce dalle altre specie di Citrus per il fatto che durante l’inverno entra in un periodo di letargo in cui non mette più nuove gemme o getti.
Distribuzione e habitat
Il kumquat è originario della Cina (in letteratura le prime descrizioni risalgono al XII secolo), ed è stato a lungo coltivato in Giappone. Furono introdotte in Europa nel 1846 da Robert Fortune, collezionista della London Horticultural Society.

Richiede estati calde, dai 25 °C ai 38 °C, ma può resistere a temperature molto basse fino ai −10 °C senza problemi. Cresce molto bene nelle regioni del tè in Cina dove il clima è troppo freddo per le altre specie di Citrus.
Coltivazione
Il kumquat è coltivato in Cina, Corea, Giappone, Europa (Corfù e Grecia) e nel sud degli Stati Uniti (Florida). In Italia, il kumquat cresce e fruttifica dalla Liguria alla Sicilia lungo tutto il litorale tirrenico.

È una pianta da esterno, può resistere fino a −5 °C se viene coperto con un velo di tessuto non tessuto ed è collocato in una posizione riparata dai venti freddi. In casa va conservato solo per pochissimi giorni in luogo fresco e luminoso. I frutti vanno raccolti tagliando il picciolo con un paio di cesoie.

È soggetto all’attacco da parte di fitomizi (Acari, Afidi, Aleurodidi) che ne diminuiscono anche notevolmente le proprietà ornamentali e produttive.

La fioritura prosegue tutta l’estate ed avviene in contemporanea con la crescita dei frutti, rendendo particolarmente ornamentale tale essenza.

Usi
Il frutto è commestibile ed è usato per la preparazione di marmellate e canditi. La consistenza sottile e dal gusto delicato della buccia consente di mangiare il frutto senza sbucciarlo.

È noto anche l’uso di liquori in cui il frutto intero, lasciato per un periodo di alcuni mesi nell’alcol buongusto con o senza zucchero, dona le proprietà aromatiche e gustative tipiche del frutto, marginalmente anche il colore. Presenta proprietà digestive e bene si accompagna anche a dolci e gelati.

Media
Nelle sue prime apparizioni fumettistiche, il personaggio Disney Eta Beta mangia anche frutti di kumquat in salamoia; nelle storie italiane si affermò come suo alimento preferito la naftalina (ciò fu dovuto al fatto che il kumquat era allora poco conosciuto e il termine difficilmente traducibile).

Kaffir Lime
Questo agrume lo conoscono davvero in pochi. Come aspetto presenta una scorza esterna verrucosa e non liscia come il lime. Il suo succo è troppo aspro per essere consumato fresco e si preferisce usarlo per dare freschezza ai piatti. Anche le sue foglie sono usate in cucina.

Pomelo
Il pomelo è il più antico agrume coltivato dall’uomo. Non ha una forma sferica ed è il più grande tra gli agrumi.

Cedro
Il cedro è costituito per il 70% da buccia: ecco perché si usa per realizzare deliziosi canditi o bevande.

Calamondino
È un incrocio tra il mandarino e il kumquat. Anche se il frutto è commestibile, la pianta viene solitamente usata solo a scopo ornamentale.

Chinotto
Molti non sanno che il chinotto è un agrume. Il suo succo è molto amaro e acido e per questo si utilizza soprattutto per bevande, marmellate o sciroppi.
Mapo
Il mapo è un incrocio tra il mandarino e il pompelmo. Il suo gusto è molto aspro, con qualche sentore di mandarino. All’esterno ha un colore verde (occhio a non scambiarlo con un lime) ma all’interno è di un meraviglioso arancione.
Mano di Buddha
Sicuramente l’agrume più strano di tutti. Ogni suoi spicchio si sviluppa come se fosse unico, portando alla formazione di piccoli “tentacoli”. La Mano di Buddha è una varietà di cedro composta interamente da buccia, quindi perfetta sia cruda che per la realizzazione di prodotti specifici, come i canditi.

 

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Prunus armeniaca L. Albicocco

Il biricoccolo è un antico albero da frutto chiamato anche come susincocco per le sue caratteristiche intermedie tra susino ed albicocco.
Caratteristiche Biricoccolo – Prunus dasycarpa
Il biricoccolo, Prunus dasycarpa, chiamato anche Susincocco, è un un ibrido naturale intraspecifico che deriva dall’incrocio tra albicocco (Prunus armeniaca) e Mirabolano (Prunus cerasifera).

La pianta, dal portamento per lo più arbustivo e di origine incerta, appartiene alla famiglia delle Rosaceae ed è diffusa nella Cina Occidentale e nell’Asia centro-meridionale. In Italia la coltivazione del susincocco viene praticata solo in Campania (area vesuviana) e nei frutteti del bolognese.
Il biricoccolo è provvisto di un robusto e profondo apparato radicale di tipo fascicolato.
I rami fitti e robusti, come quelli del Prugnolo, partono direttamente dalle radici e verso l’alto danno vita ad una fitta chioma piramidale che può superare anche i 5 metri di altezza. La corteccia che ricopre i rami adulti è di colore scuro come nel Mirabolano.

Le foglie larghe e a margini dentellati, hanno una forma simile a quelle dell’albicocco e prima di cadere dal verde intenso virano al giallo carico contribuendo in tal modo allo spettacolare foliage autunnale.

I fiori di piccole dimensioni e riuniti in densi gruppi o grappoli ricoprono interamente le branche. I fiori hanno la corolla composta da 5 petali bianchi soffusi di rosa che fanno da corona a numerosi stami sterili.
I frutti o biricoccole, sono piccoli e tondeggianti e dal verde quando sono acerbi virano al rosso intenso a maturazione completata.

La buccia è vellutata e lucida e, come nelle altre varietà di prugne, è ricoperta da un sottile strato di pruina.

La polpa è succosa ed ha un caratteristico sapore dolce-acidulo che sa di un misto tra prugne ed albicocche mature.

I frutti, chiamate anche prugne selvatiche, maturano in estate, da giugno a luglio.

Il seme, racchiuso all’interno della polpa come quello delle susine è oblungo ma purtroppo è sterile.

Fioritura: la pianta si ricopre di fiori tra Marzo-Aprile prima della comparsa delle foglie.
Coltivazione
Esposizione: per potere fiorire e dare un’abbondante produzione di frutti va coltivato in zone soleggiate. E’ resistente al caldo, al vento e anche alle temperature rigide dell’inverno al disotto dei -15° C.

Terreno: non è esigente in fatto di terreni e cresce forte e vigoroso sia in quelli argillosi sia in quelli calcarei purchè ben drenati.

Annaffiature: è una pianta rustica resistente alla siccità ma va comunque irrigata regolarmente dalla ripresa vegetativa in poi per favorire la fioritura e la produzione dei frutti. In inverno il biricoccolo entra in riposo vegetativo e non necessita di essere annaffiato.
Concimazione: in autunno basta interrare ai piedi della pianta dello stallatico maturo. In primavera somministrare del concime granulare a lenta cessione ricco in fosforo (P) e potassio (K).
Moltiplicazione del Biricoccolo
Come già detto il susincocco è un ibrido naturale e quindi sterile come i suoi semi. L’unica tecnica di propagazione che consente di ottenere piante produttive è quella vegetativa da effettuare mediante innesto su piante dello stesso genere come ad esempio il Mirabolano.
Potatura
La pianta va potata per contenerne la crescita in altezza e per dare armonia di forma alla chioma. Si accorciano i rami più lunghi e disordinati e quelli interni per favorire l’arieggiamento nelle parti più interne della chioma. Si potano drasticamente i rami secchi e quelli eventualmente affetti da diffuse infestazioni parassitarie. La potatura si esegue facilmente quando il biricoccolo perdendo le foglie lascia ben in vista le gemme da fiore e quelle da legno.
Impianto o messa a dimora
La piantumazione in buche ben lavorate si effettua alla fine dell’inverno o in autunno. Le piante vanno distanziate a 2, 5 metri sulle file e a 2,5-3 metri sulle file.
Raccolta dei frutti
La raccolta dei frutti è scalare e si effettua verso la metà di giugno mese in cui il hanno la buccia di colore rosso intenso.

Parassiti e malattie del biricoccolo o susincocco
A differenza delle altre Rosacee, nespolo, albicocco e pesco, come il Biancospino ha un’elevata resistenza alle malattie fungine e a quelle batteriche.
Cure e trattamenti
Il biricoccolo non necessita di cure particolari ma di tanto in tanto si consiglia di liberare i suoi piedi dalle erbe infestanti. I trattamenti antiparassitari vanno praticati solo in caso di necessità anche con nebulizzazioni della chioma con l’antiparassitario all’ortica o con quello all’aglio entrambi naturali ma molto efficaci nella lotta agli afidi.

Varietà
Tra le varietà di biricoccolo ricordiamo quelle più diffuse e coltivate per la loro elevata rusticità:
il biricoccolo Gigante: coltivato nel bolognese (Budrio) produce frutti molto grandi e più succosi delle albicocche
il biricoccolo Vesuviano: coltivato nell’area vesuviana produce frutti più piccoli ma gradevolmente aromatici al palato.
Usi
I frutti del biricoccolo si consumano freschi oppure sotto forma di sciroppo, gelatine o marmellate inoltre sono ottimi anche nella grappa o sottospirito.

La presenza di fibre, di flavonoidi e l’alto contenuto di vitamina C rende questi frutti alleati preziosi per la nostra salute: contrastano la stitichezza e l’invecchiamento precoce delle cellule; favoriscono la circolazione periferica.

Il legno duro e resistente anticamente veniva impiegato per la produzione di piccoli oggetti decorativi oggi invece il legno vecchio viene utilizzato come combustibile.
Curiosità
Il biricoccolo ha origini molto antiche infatti la sua coltivazione veniva praticata già nel 1700 in Emilia, Lombardia e Veneto. Le prime notizie storiche di questo albero da frutto non esistente allo stato selvatico sono riportate nel catalogo dei frati Certosini.

Gli altri nomi comuni di questa Rosacea rustica e dimenticata sono: plumcot, pruna cresammola, albicocco nero, albicocco del Papa e albicocco violetto.

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Prunus avium L. Ciliegio

 

Il Prunus cerasus, appartenente alla famiglia delle Rosaceae, più conosciuto come Amareno o ciliegio amaro è una varietà di ciliegio che produce le famose amarene impiegate per la preparazione di marmellate, sciroppi e liquori.
Caratteristiche dell’amareno
L’Amareno, detto anche Visciolo o Amarasco, originario dell’Asia minore è un albero perenne alto anche più di 3 metri con tronco eretto.
I rami sottili e pendenti su cui sono inserite in tutta la loro lunghezza foglie ovali a margini seghettati, coriacee di colore verde brillante che compaiono sui rami subito dopo i fiori.

fiori-amareno-amarene

I fiori bianchi e pentapetali pendono dai rami mediante un lungo peduncolo in gruppi di due a quattro.

I frutti, le amarene, sono drupe di colore rosso chiaro -rosso scuro, con polpa chiara aderente al nocciolo più o meno acidula a seconda della varietà e sicuramente diversa dal ciliegio dolce avium.

Fioritura
L’amareno o ciliegio amaro fiorisce in primavera. I suoi rami penduli ricoperti da numerosi fiori bianchi formano una specie di cascata spumeggiante e profumata visitata da numerosi insetti impollinatori.
Coltivazione dell’amareno o ciliegio amaro
Esposizione
Il Prunus cerasus come le altre specie di Rosacee per poter fiorire e produrre abbondanti fruttificazioni va coltivato nei luoghi caratterizzati da un clima mite e soleggiati per molte ore al giorno preferibilmente anche lontano da ombra proiettata da altri alberi che si trovano nelle sue vicinanze.

Terreno
Il ciliegio amareno è una pianta che si adatta a tutti i tipi di terreno anche e aridi e poveri di nutrienti infatti cresce e si sviluppa in modo rigoglioso un po’ ovunque allo stato selvatico purchè il substrato è ben drenato.
Annaffiature
Generalmente si accontenta delle acque piovane e va irrigato moderatamente solo nei periodi di prolungata siccità per potenziarne la crescita se si tratta di un esemplare giovane e impiantato da poco. L’eccesso idrico predispone la pianta all’attacco delle malattie fungine. Durante il periodo della maturazione dei frutti o amarene che come è noto avviene in estate va irrigato preferibilmente in modo costante, la mattina presto o dopo il tramonto del sole. In inverno è consigliabile sospendere le annaffiature soprattutto in caso di gelo.
Concimazione
Per stimolare la fioritura e di conseguenza la produzione dei frutti, come il nespolo, il pesco e l’albicocco, e altre specie da frutto, va concimato almeno una volta l’anno dopo la fioritura oppure a fine estate distribuendo ai suoi piedi del letame maturo o stallatico pellettato o di prodotti fertilizzanti a base di azoto a lenta cessione.
Moltiplicazione dell’amareno
L’amareno si riproduce per talea e mediante portainnesto affine alla cultivar.

I noccioli raccolti dai frutti maturi si fanno essiccare e poi conservano in un luogo asciutto poi si fanno svernare per almeno 3 mesi in frigorifero fino al momento dell’utilizzo.
La semina dei noccioli si effettua in primavera in vasi contenenti sabbia e torba o direttamente all’aperto verso la fine di marzo. Ovviamente le piante ottenute una volta che saranno forti e vigorose dovranno essere innestate.

Propagazione per talea
Il periodo più indicato per propagare l’amareno per talea è la primavera. Ecco come fare.

Si sceglie un ramo giovane, vigoroso che non porta fiori o gemme;
si recide il ramo con un taglio obliquo, e si spolverizza l’estremità recisa con un po’ di ormone radicante;
si interra metà talea di amareno in un miscuglio di torba e sabbia o torba e perlite;
si colloca il cassone o vaso in una zona in ombra o ancora meglio in una serra fredda;
si mantiene il substrato umido per i primi 10 giorni;
si applica una busta di plastica intorno alla talea per aumentare l’umidità dell’aria e per favorire l’attecchimento della radice;
si procede irrigando dal basso ogni 3-4 giorni;
alla comparsa dei primi nuovi germogli si elimina il foglio di plastica e si mantiene il vaso all’ombra per almeno 3 mesi.
Impianto
L’impianto o messa a dimora del giovane amareno di effettua da gennaio fino alla fine della primavera. Si interra la pianta con il pane di terra che avvolge la radice in una buca profonda con materiale drenante sul fondo e riempita con una miscela di comune terreno da giardino, sabbia e concime organico. Inoltre se il fusto della pianta di Amareno è molto sottile, si consiglia di applicare un tutore per ancorarla bene al terreno e consentire un suo regolare sviluppo. La produzione di ciliegie amarena avverrà dal secondo anno di età ma per raccolti abbondanti bisogna aspettare altri 2 anni.
Potatura dell’amareno
Potare solo i rami secchi o danneggiati per evitare che la pianta venga attaccata dalla monilia del ciliegio.
Raccolta delle amarene
La raccolta delle amarene viene effettuata a completa maturazione a partire dal mese di giugno, secondo le varietà.

Malattie e parassiti dell’amareno
Il ciliegio acido sensibile ai comuni parassiti animali e in particolare teme l’attacco degli afidi e delle cocciniglie. Tra le malattie crittogame è invece come tante altre piante da frutto è attaccato dalla moniliosi una malattia molto insidiosa che danneggia fiori e frutti e che generalmente insorge nei periodi di alta piovosità o che viene causata dalla eccessiva potatura.
Cure e trattamenti dell’amareno
Trattamenti antiparassitari e anticrittogamici solo se necessari. Per prevenire eventuali infestazioni da malattie fungine che si presentano a carico di foglie e frutti con vistose macchie rossastre o giallastre (sicuramente in atto un attacco fungino) in autunno e in primavera intervenire prontamente con specifici fitofarmaci o prodotti rameici come la poltiglia bordolese.

Per evitare la diffusione delle malattie fungine gli accorgimenti e le cure più idonee sono:

favorire lo sgrondo dell’acqua soprattutto in terreni non collinari utilizzando del materiale drenante:
limitare le concimazioni azotate;
effettuare le dovute potature per alleggerire la chioma con attrezzi specifici ben affilati e disinfettati alla fiamma o con la candeggina;
in fase di impianto rispettare le distanze tra le piante sulle e tra le file;
in caso di apporti idrici artificiali prediligere le irrigazioni a goccia per evitare;
in caso di infestazioni fungine eliminare i rami infetti e bruciarli quanto prima.
Specie o varietà di Prunus

Oltre alle diverse specie di Prunus avium, ovvero varietà che producono ciliegie dolci esistono molte varietà di Prunus cerasus, che producono invece ciliege più acide, conosciute perlopiù con il nome amareno , visciolo o amarasco.

Tra le varietà di amarene più diffuse citiamo:
Prunus cerasus subsp. Acida o Schattenmorelle
Noto anche come Long Long Cherry o Northern Cherry è la varietà di amarena più coltivata per l’elevata produzione di frutti e per la sua crescita vigorosa anche se esposta all’ombra. I suoi frutti vengono utilizzati per la produzione di succhi, marmellate e confetture.

Varietà di amarene visciole e marasche
Tra le varietà di amarene visciole e marasche le più conosciute sono :
l’amarena di Verona, l’amarena di Vignola, la Regina Ortensia, Earle, Fanal, Lotova, Meteor, Montmorency e Montmorency de Sauvigny, Spanska e Schattenmorelle e tra le marasche più famose l’Agriotta Nera del Piemonte e l’Agriotta Imperiale.
Usi delle amarene
I peduncoli dei frutti per le loro numerose proprietà fitoterapiche vengono essiccati all’ombra, in luoghi asciutti e arieggiati e poi conservati in barattoli in luoghi al riparo della luce.

Sono un frutto con ottime proprietà benefiche.

I frutti apportano circa 50 Calorie ogni 100 grammi e vengono impiegati per la preparazione di marmellate, crostate, sciroppi e amarene sciroppate o sotto spirito.

 

 

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Cydonia oblonga Miller Cotogno

Il melo cotogno è un albero da frutto molto antico che viene coltivato non solo nei frutteti per la produzione delle mele o pere cotogne dal sapore aromatico ma anche in giardino a scopo ornamentale per la sua grande e frondosa chioma.
Caratteristiche Melo cotogno o Pero cotogno
Il melo cotogno, Cydonia oblonga, è un albero della famiglia delle Rosaceae, originario dell’Asia minore diffuso lungo tutta l’area mediterranea. In Italia è coltivato un po’ ovunque soprattutto in Puglia ed in Campania.

Il melo cotogno è un albero caducifoglio alto mediamente 5 metri dotato di un apparato radicale superficiale e di un tronco eretto e lineare che verso l’alto tende ad allargarsi producendo una chioma espansa composta da numerose ramificazioni talvolta anche contorte. Il tronco è ricoperto da una corteccia variamente screpolata di colore grigio-argenteo.
Le foglie, grandi ed ovali, sono alterne.
Quelle giovani che compaiono prima dei fiori sono di colore verde chiaro e sono ricoperte da una sottile peluria biancastra mentre quelle che persistono sui rami fino all’autunno sono glabre e di colore verde intenso sulla pagina superiore, tomentose invece su quella inferiore.
I fiori, vistosi e profumati hanno la corolla composta da 5 grandi petali di colore bianco-rosati che fanno da corona a numerosi lunghi stami e ad un grande ovario composto da 5 carpelli.
I frutti o mele (falsi frutti), sono pomi irregolari ricoperti da una buccia verdastra che diventa via via giallastra con la maturazione. I frutti, intensamente profumati, hanno la polpa durissima e a seconda della cultivar possono avere la forma di mela (maliformi) o di pera (piriformi). Anche le mele sono ricoperte da una fitta e persistente peluria di colore marrone-grigiastra che si stacca non appena viene sfregata con le dita. Il sapore aromatico delle mele cotogne mature sa di miele.
I semi, racchiusi all’interno dell’endocarpo, sono poligonali e come quelli delle altre varietà di mele sono di colore scuro.

Fioritura: il melo cotogno fiorisce in primavera nel periodo Aprile-Maggio.
Coltivazione del Melo cotogno
Esposizione: per potere fiorire e fruttificare questo albero necessita di esposizioni soleggiate per molte ore al giorno e riparate dai venti. Il melo cotogno tollera abbastanza ben il freddo ed il gelo dell’inverno ed è resistente al caldo. In zone fredde sarà bene posizionare l’albero in crescita in posizione riparata dal vento.

Terreno: sia adatta a qualunque tipo di terreno anche quello comune da giardino purchè non troppo calcareo o sabbioso e comunque ben drenato.
Annaffiature: anche se il melo cotogno resiste alla siccità prolungata va comunque regolarmente annaffiato dalla ripresa vegetativa fino alla fine dell’estate, soprattutto durante il periodo della fioritura e della crescita dei frutti. In inverno le annaffiature vanno sospese del tutto.
Concimazione: anche se non predilige terreni molto fertili e ricchi di sostanza organica si consiglia comunque di concimarlo a fine inverno con dello stallatico ben maturo e successivamente con un fertilizzante granulare a lenta cessione ad alto contenuto in potassio (K) e fosforo (P) per stimolare la produzione e la maturazione dei frutti.
Moltiplicazione Melo cotogno
Si riproduce per seme e meglio ancora mediante talea legnosa, per margotta e mediante l’utilizzo di portainnesti.

La moltiplicazione per seme è lentissima e le nuove piante hanno caratteristiche genetiche completamente diverse dalla pianta madre.
Moltiplicazione per talea
E’ il metodo di propagazione più utilizzato e si effettua alla fine dell’autunno prelevando con cesoie ben affilate e disinfettate delle talee legnose di rami apicali dell’anno lunghe circa 20 cm. I tagli si praticano al disotto dell’intersezione fogliare e sempre in maniera obliqua.
Le talee vanno messe a radicare in un substrato soffice mantenuto costantemente umido. Le talee di melo cotogno che hanno attecchito (comparsa di nuovi germogli) potranno essere messe a dimora definitiva nell’autunno successivo. Per favorire la radicazione le talee vanno trattate con un po’ di ormone radicante.
Moltiplicazione per Margotta
La margotta, come la talea, è un metodo di propagazione molto difficoltoso ma le nuove piante saranno forti e vigorose ed avranno le stesse caratteristiche della madre in quanto non c’è variabilità genetica.

Moltiplicazione per innesto
Sempre per propagazione agamica si innestano rami dell’anno del melo cotogno su portainnesti semi-nanizzanti o nanizzanti che ne riducono lo sviluppo mantenendole più compatte oppure come per il pero si utilizzano le piante ottenute per talea.
Impianto o messa a dimora del melo cotogno
L’impianto delle piante già forti e rigogliose può essere fatto dalla fine dell’autunno fino a inizio della primavera.

La buca destinata ad accogliere la pianta di melo cotogno deve essere larga e profonda il doppio della zolla che avvolge le radici. Dopo l’impianto si riempie la buca di terra; si pressa e si compatta bene e poi si innaffia abbondantemente.
Potatura
La potatura si esegue alla fine dell’autunno. Generalmente si interviene solo nei primi 2- 3 anni dalla messa a dimora per conferire armonia di forma alla pianta.

Negli anni successivi si recidono alla base gli eventuali polloni; si accorciano di poco i rami più esuberanti e quelli più interni per favorire l’arieggiamento dell’intera chioma; si recidono completamente i rami secchi e quelli improduttivi.
Le ferite della pianta dovute ai tagli vanno trattate con una sostanza cicatrizzante per scongiurare il rischio di infezioni.

Raccolta delle mele cotogne

I frutti del melo cotogno si raccolgono dal mese di ottobre in poi quando la buccia avrà un caratteristico colore giallo carico. Le mele raccolte si conservano con il picciolo rivolto verso l’alto in cassette contenenti paglia riposte poi in un luogo asciutto.
Parassiti e malattie del melo cotogno
Si tratta di una pomacea e come tale è sensibile come il melo, pero, nespolo del Giappone e sorbo al fuoco batterico causato dall’Erwinia Amylovora un batterio che provoca la necrosi dei germogli, dei fiori e delle foglie.

Come il pesco viene attaccato dalla Carpocapsa, dalla Monilia e dalla Tignola insetti che attaccano frutti e germogli.

Cure e trattamenti
Dalla primavera in poi proteggere la base della pianta con una pacciamatura di paglia.
In inverno effettuare su tutta la pianta un trattamento antiparassitario con polisolfuro di Calcio efficace anche contro l’oidio e la ticchiolatura.
In primavera, dopo la fioritura e alla comparsa dei frutti irrorare la chioma con poltiglia bordolese.
Varietà di melo cotogno
Tra le varietà più apprezzate per la qualità ed il sapore delle mele ricordiamo:

Cotogno Vranja: una varietà gigante che produce fiori rosa e grandi mele piriformi dal sapore agro-dolce;
Cotogno Champion o pero cotogno: una albero di medie dimensioni che produce frutti maliformi più piccoli dal sapore aromatico;
Melo cotogno del Giappone: una varietà coltivata a scopo ornamentale per la bellezza dei suoi fiori di colore rosso vivo.
Usi e proprietà
I frutti, mele o pere cotogne, che maturano in autunno non sono commestibili crudi ma vanno corti.

Sono utilizzati in cucina per la preparazione di:

una deliziosa mousse di frutta, un aromatico liquore digestivo,
della famosissima cotognata ottima a colazione o con i formaggi freschi e stagionati;

della delicata marmellata di mele cotogne.

Le altre parti della pianta, foglie e semi, come i frutti trovano largo impiego in farmacologia per le loro proprietà antinfiammatorie, astringenti, emollienti, sedative.

Le mele cotogne sono considerate anche regolatori naturali del colesterolo ematico e per lo scarso apporto calorico sono consigliate nelle diete dimagranti.
Curiosità
Il melo cotogno ha origini antichissime.

Fonti storiche certe riportano che la sua coltivazione era praticata 4.000 anni fa dai Babilonesi e dai Greci ed era ben noto anche presso i Romani.
I ciprioti preparano la cutugnata o cotognata facendo cuocere le mele cotogne nel vin cotto.

Gli inglesi amano la gelatina (jelly) di mele cotogne per accompagnare frutta secca o formaggi piccanti.
Le varietà con i frutti a forma di mela sono dette meli cotogni, mentre quelle con i frutti più allungati sono dette peri cotogni.

Anticamente le mele cotogne venivano poste negli armadi e nei cassetti per profumare per profumare la biancheria e anche come antitarme.

 

 

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Prunus dulcis (Miller) D.A.Webb Mandorlo

Appartenente alla famiglia delle Rosaceae, il mandorlo oltre che Prunus dulcis, botanicamente è anche denominato Prunus amygdalus o Amygdalus communis.Di altezze comprese tra 5 e 8 metri con diametri della chioma dai 5 ai 7 metri; il fusto è di color grigio scuro, tendente con l´età a spaccarsi in piccole lamine e presenta foglie color verde scuro, lunghe 10-12 cm, oblungo-lanceolate e finemente seghettate.

I fiori, a 5 petali, sbocciano verso la metà di febbraio fino a marzo e sono o completamente bianchi o bianco rosati; la fioritura avviene prima dell´emissione delle foglie.

I frutti, verdi e vellutati, quando maturi tendono a spaccarsi e cadere a terra; all´interno il nocciolo con all´interno il seme commestibile.

Per il consumo fresco la raccolta è anticipata in giugno-luglio mentre l´altra raccolta viene effettuata sul finire dell´estate, con l´apertura del mallo e la caduta a terra. In seguito, i noccioli vanno lasciati essiccare in un luogo ventilato onde evitare muffe.

Molto limitato il consumo, come frutto fresco, viene invece largamente utilizzato come frutta secca, anche a livello industriale per la preparazione di confetti, torroni, granella, ecc…La mandorla contiene le vitamine B1, B2 ed E, magnesio, ferro e calcio.
Principali varietà di Mandorlo
Prunus dulcis ´Ai´
Prunus dulcis ´Ferraduel´
Prunus dulcis ´Lauranne´
Prunus dulcis ´Mandaline´
Prunus dulcis ´Supernova´
Prunus dulcis ´Tuono´.

Da tener presente che nei vivai la denominazione delle piante di mandorlo sono riconducibili al nome delle innumerevoli cultivar, dalle svariate caratteristiche, sia organolettiche del frutto, sia dal punto di vista della produttività.
Coltivazione
Pur essendo una pianta molto rustica, il mandorlo, si adatta ad essere coltivato in quasi tutta la nostra penisola; unico inconveniente, legato alla fioritura precoce, sono le gelate tardive e i venti freddi che potrebbero danneggiare i fiori.

La messa a dimora si esegue in autunno o sul finire dell´inverno in terreni soffici, mediamente fertili e leggermente calcarei; non sopporta terreni compatti, argillosi e umidi.

Il fabbisogno idrico è garantito dalle precipitazioni e si dovrà intervenire con delle annaffiature di soccorso solo in caso di prolungata siccità.

Sia al momento dell´impianto, sia ogni 2-3 anni il Prunus dulcis gradisce essere concimato con del letame maturo.

Malus domestica Borkh. Melo

Pianta d’origini antichissime proveniente dalle regioni transcaucasiche, diffusa in moltissime parti del mondo. La sottospecie più conosciuta è il malus communis pumila, da cui si sono ottenute gran parte delle varietà di mele presenti sul nostro mercato. Altre specie sono utilizzate per la produzione di piantine da portainnesto. La coltivazione del melo è molto diffusa anche in Italia, infatti, prediligendo i climi umidi e freddi, la maggior concentrazione dei frutteti da produzione si trova in tutto l’arco alpino. Il melo può raggiungere gli 8-10 metri d’altezza, ha foglie di color verde scuro di forma ovale con il margine seghettato, i fiori sono composti da cinque petali di color bianco rosato. Produce frutti di forma tondeggiante le cui dimensioni e colore variano secondo le numerosissime varietà attualmente coltivate. Negli ultimi anni c’è stata una tendenza a suggerire vecchie varietà di melo ormai abbandonate, le quali hanno ottime caratteristiche organolettiche e soprattutto una grandissima resistenza alle più diffuse malattie. Le mele, oltre che per il consumo fresco, sono utilizzate dall’industria per la produzione di marmellate, succhi, gelatine e per l’essiccazione.

Sono numerosissimi i portainnesti utilizzati per il melo, i più diffusi sono il franco, il dolcino, il paradiso, e i vari portainnesti clonali. L’innesto sul franco dà un grande sviluppo, rendendo la pianta molto longeva ed esaltando le caratteristiche dei frutti, entra però in produzione molto tardi. Il dolcino e il paradiso sono utilizzati per ottenere forme molto ridotte con il vantaggio di avere abbondanti e precoci produzioni, infatti, con questi portainnesti si possono raccogliere le mele già dal primo anno dopo l’impianto. Gli altri portainnesti ottenuti da cloni di dolcino e paradiso, sono classificati in base alla vigoria che danno alle piante innestate su di loro, sono utilizzati esclusivamente per i frutteti da produzione e la loro scelta varia in conformità del tipo di varietà, dal tipo di terreno e dal clima della zona su cui si deve realizzare il frutteto.

Concimazione
Come per molte altre piante, anche per il melo è consigliata la concimazione, fatta possibilmente ogni anno, con letame ben maturo o altri concimi d’origine organica, integrandoli con concimi chimici complessi a base di azoto, fosforo, potassio e microelementi, usando percentuali più alte di azoto e fosforo in primavera, per favorire lo sviluppo della pianta sia nella parte aerea sia in quella radicale, con percentuali più alte degli altri elementi durante l’estate fino a settembre, per favorire la messa a frutto, ricordando che il potassio ha una spiccata influenza sulla colorazione dei frutti.

Parassiti e malattie
I parassiti animali che attaccano il melo sono: gli afidi, che si annidano sui germogli e sulle foglie accartocciandole; le cocciniglie che possono danneggiare i rami, le foglie e i frutti indebolendo sensibilmente la pianta; la tignola che è una larva che si nutre dei germogli e delle foglie ed infine la carpocapsa, una larva che si nutre dei frutti danneggiandoli irrimediabilmente. Per quanto riguarda le malattie di origine fungina più note, segnaliamo l’oidio che è una muffa bianca che si manifesta sulle foglie e sui germogli e la ticchiolatura che colpisce foglie e frutti con macchie brune necrotiche.

A) Allevamento ad alberello
Per formare un melo ad alberello è necessario piantare un pollone, il quale si dovrà subito tagliare ad un’altezza che può variare dai 120 ai 170 cm dal suolo. Da qui, nel corso del primo anno, saranno emessi altri rami. All’inizio del secondo anno si dovrà conservare almeno tre di questi rami accorciandoli a venti cm che, nel corso della stagione vegetativa, emetteranno a loro volta altri rami. All’inizio del terzo si dovranno tagliare anche quest’ultimi a venti cm, così facendo sarà data una solida struttura portante per la chioma. Per questo tipo di forma è consigliato che il portainnesto il franco, oppure un clonale di elevata vigoria.

b) Allevamento a vaso nano

E’ una delle forme più adatte per i piccoli giardini e per la facilità di realizzazione, si dovrà perciò piantare un pollone di un anno e tagliarlo subito a 40 cm dal suolo, il quale durante il primo anno vegetativo produrrà altri rami. L’anno successivo si conserveranno almeno tre rami vigorosi, che verranno anch’essi tagliati a 20 cm dal punto di partenza, dai quali si otterranno, nel corso del secondo anno, sei rami disposti in maniera circolare attorno al fusto. Questi rami, una volta spuntati nell’estremità, produrranno la chioma definitiva. Per questa forma è consigliato che il portainnesto sia un clonale di bassa vigoria.

C) A palmetta o spalliera

Questo tipo di forma è molto utile nel caso in cui si vogliano guarnire dei muri o delle recinzioni. In questo caso si dovrà piantare un pollone di un anno, tagliato a 50 cm da terra e l’anno successivo conservare almeno quattro rami, disponendoli su due piani e ancorati ad un sostegno, che può essere un filo di ferro sostenuto da due paletti ai lati della pianta oppure ad un traliccio. Per questo tipo di forma è consigliato utilizzare meli innestati su portainnesti clonali di media vigoria

Albero melo
Il nome botanico della pianta di mele è malus; questa pianta fiorisce, di solito, nel mese di maggio e i suoi frutti possono assumere differenti colorazioni in base alla varietà di appartenenza. Le piante di questo tipo vanno impiantate nel terreno nel periodo autunnale, di solito nel mese di novembre, anche se, se sono presenti condizioni meteorologiche avverse, che portano un elevato grado di umidità, è bene rimandare la messa a dimora al mese di gennaio. Per calcolare a quale distanza mantenere le piante, occorre sapere a quale varietà appartengono. Nel caso di piante di malus di altezza contenuta, è possibile distanziarli di circa 2 metri, mentre per quelle di grandi dimensioni occorrerà prevedere almeno 3/4 metri. Nei primi anni dopo la messa a dimora è bene controllare che il terreno circostante non venga invaso da piante infestanti; per questo è possibile intervenire con materiale pacciamante, utile anche per mantenere il giusto grado di umidità per il terreno.

Melo – Malus: Malus coltivazione

Per ottenere degli alberi di mele sane e rigogliose è bene metterle a dimora in un terreno dal buon potere drenante, ricco di elementi nutritivi e con la presenza di poco calcare. Queste piante vengono coltivate con successo in zone montane o di collina, in quanto questi alberi non hanno problemi a resistere alle basse temperature. Questi alberi possono essere piantati anche in pieno sole, avendo però l’accortezza di sistemarli in una zona piuttosto riparata dal vento, soprattutto nel caso di zone particolarmente ventose.

Per avere un buon raccolto può essere necessario intervenire, dopo la fioritura, per togliere i frutti in eccesso, in quanto essi potrebbero contrastarsi nella crescita e svilupparsi poco. L’operazione andrebbe effettuata nel mese di luglio, ma è opportuno procedere con cautela per evitare di togliere i frutti migliori.

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 L. Olivo

L’olivo o ulivo (Olea europaea L., 1753) è un albero da frutto che si presume sia originario dell’Asia Minore e della Siria, perché in questa regione l’olivo selvatico spontaneo è ab antiquo comunissimo, formando delle vere foreste sulla costa meridionale dell’Asia Minore. Qui appunto i Greci cominciarono a coltivarlo scoprendone le sue proprietà, cui diedero il nome speciale di ἔλαια che i Latini fecero olea.

Fu utilizzato fin dall’antichità per l’alimentazione. Le olive, i suoi frutti, sono impiegati per l’estrazione dell’olio di oliva e, in misura minore, per l’impiego diretto nell’alimentazione. A causa del sapore amaro dovuto al contenuto in polifenoli appena raccolte, l’uso delle olive come frutti nell’alimentazione richiede però trattamenti specifici finalizzati alla deamaricazione (riduzione dei principi amari), realizzata con metodi vari. Appartiene alla famiglia delle Oleaceae e al genere Olea.
Etimologia

Il nome “olivo” deriva dal latino olīvum, da un ablativo olīvī, olīvō di oleum, a sua volta dal greco arcaico ἔλαιϝον élaiwon e dal greco classico ἔλαιον élaion. La forma “ulivo”, come anche “uliva”, è più frequente in Toscana, ma è diffusa anche in altre parti d’Italia, sebbene in contesti poetico-letterari; la forma “olivo”, del tutto prevalente invece nella letteratura scientifica, è tipica del Veneto, di parte della Sardegna, dell’Emilia-Romagna e del Lazio settentrionale; nel Sud prevalgono aulivo, alivo, avulivo.
Descrizione
Abbozzi delle infiorescenze o mignole

L‘olivo è un albero sempreverde e un albero latifoglie, la cui attività vegetativa è pressoché continua, con attenuazione nel periodo invernale. Ha crescita lenta ed è molto longevo: in condizioni climatiche favorevoli può diventare millenario e arrivare ad altezze di 15-20 metri. La pianta comincia a fruttificare dopo 3-4 anni dall’impianto, inizia la piena produttività dopo 9-10 anni e la maturità è raggiunta dopo i 50 anni; a differenza della maggiore parte dell’altra frutta, la produzione non diminuisce con alberi vetusti, infatti nel meridione si trovano oliveti secolari. Le radici, per lo più di tipo avventizio, sono espanse e superficiali: in genere non si spingono oltre i 0,7-1 metro di profondità.

Il fusto è cilindrico e contorto, con corteccia di colore grigio o grigio scuro e legno duro e pesante. La ceppaia forma delle strutture globose, dette ovoli, da cui sono emessi ogni anno numerosi polloni basali. La chioma ha una forma conica, con branche fruttifere e rami penduli o patenti (disposti orizzontalmente rispetto al fusto) secondo la varietà.

Le foglie sono opposte, coriacee, semplici, intere, ellittico-lanceolate, con picciolo corto e margine intero, spesso revoluto. La pagina inferiore è di colore bianco-argenteo per la presenza di peli squamiformi. La parte superiore invece è di colore verde scuro. Le gemme sono per lo più di tipo ascellare.

Il fiore è ermafrodito, piccolo, con calice di 4 sepali e corolla di petali bianchi. I fiori sono raggruppati in numero di 10–15 in infiorescenze a grappolo, chiamate “mignole”, sono emessi all’ascella delle foglie dei rametti dell’anno precedente. La mignolatura ha inizio verso marzo–aprile. La fioritura vera e propria avviene, secondo le cultivar e le zone, da maggio alla prima metà di giugno.

Il frutto è una drupa globosa, ellissoidale o ovoidale, a volte asimmetrica. È formato da una parte “carnosa” (polpa) che contiene dell’olio e dal nocciolo legnoso e rugoso. Il peso del frutto varia tra 1–6 grammi secondo la specie, la tecnica colturale adottata e l’andamento climatico. Ottobre-dicembre è il periodo della raccolta, che dipende dalle coltivazioni e dall’uso che si deve fare: se da olio o da mensa.

Biologia
Fenologia

L’olivo attraversa un periodo di riposo vegetativo che coincide con il periodo più freddo, per un intervallo di tempo che dipende dal rigore del clima.
Evoluzione fenologica della fioritura dell’olivo. Scala BBCH: a-50, B-51, C-54, d-57 (<15% di fiori aperti); f-65 (> 15% di fiori aperti); g-67 (<15% di fiori aperti); h-68

Alla ripresa vegetativa, che orientativamente si verifica a febbraio, ha luogo anche la differenziazione a fiore; fino a quel momento ogni gemma ascellare dei rametti dell’anno precedente è potenzialmente in grado di generare un nuovo germoglio o una mignola. Dalla fine di febbraio e per tutto il mese di marzo si verifica un’intensa attività dapprima con l’accrescimento dei germogli, poi anche con l’emissione delle mignole, fase che si protrae secondo le zone fino ad aprile. La mignolatura ha il culmine in piena primavera, con il raggiungimento delle dimensioni finali. Le infiorescenze restano ancora chiuse, tuttavia sono bene evidenti perché completamente formate.

Da maggio alla prima metà di giugno, secondo la varietà e la regione, ha luogo la fioritura, piuttosto abbondante. In realtà la percentuale di fiori che porteranno a compimento la fruttificazione è ridottissima, generalmente inferiore al 2%. L’impollinazione è anemofila. Alla fioritura segue l’allegagione, in linea di massima dalla metà di giugno. In questa fase la corolla appassisce e si secca persistendo fino a quando l’ingrossamento dell’ovario ne provoca il distacco. La percentuale di allegagione è molto bassa, inferiore al 5%, pertanto in questa fase si verifica un’abbondante caduta anticipata dei fiori (colatura). Si tratta di un comportamento fisiologico dal momento che la maggior parte dei fiori ha lo scopo di produrre il polline. Sulla percentuale di allegagione possono incidere negativamente eventuali abbassamenti di temperatura, gli stress idrici e i venti caldi.
Frutti maturi

Dopo l’allegagione ha luogo una prima fase di accrescimento dei frutti, che si arresta quando inizia la lignificazione dell’endocarpo. Questa fase, detta “indurimento del nocciolo”, ha inizio nel mese di luglio e si protrae orientativamente fino agli inizi di agosto.

Quando l’endocarpo è completamente lignificato riprende l’accrescimento dei frutti, in modo più intenso secondo il decorso climatico. In regime non irriguo sono le piogge dalla metà di agosto a tutto il mese di settembre a influire sia sull’accrescimento sia sull’accumulo di olio nei lipovacuoli: in condizioni di siccità le olive restano di piccole dimensioni, possono subire una cascola più o meno intensa e daranno una bassissima resa in olio per unità di superficie; in condizioni di umidità favorevoli le olive raggiungono invece il completo sviluppo a settembre. Eventuali piogge tardive (da fine settembre a ottobre), dopo una forte siccità estiva, possono in pochi giorni far aumentare le dimensioni delle olive in modo considerevole, tuttavia la resa in olio sarà bassissima perché l’oliva accumula soprattutto acqua.

Da ottobre a dicembre, secondo la varietà, ha luogo l’invaiatura, cioè il cambiamento di colore, che indica la completa maturazione. L’invaiatura è più o meno scalare sia nell’ambito della stessa pianta sia da pianta a pianta. All’invaiatura l’oliva cessa di accumulare olio e si raggiunge la massima resa in olio per ettaro.

Dopo l’invaiatura le olive persistono sulla pianta. Se non raccolte vanno incontro a una cascola più o meno intensa, ma differita nel tempo fino alla primavera successiva. In questo periodo la resa in olio tende ad aumentare in termini relativi: il tenore in olio aumenta perché le olive vanno incontro ad una progressiva perdita d’acqua. In realtà la resa in olio assoluta (in altri termini, riferita all’unità di superficie) diminuisce progressivamente dopo l’invaiatura perché una parte della produzione si perde a causa della cascola e degli attacchi da parte di parassiti e fitofagi.

Nella tabella seguente è riportato uno schema che riassume il ciclo fenologico dell’olivo. I periodi di riferimento hanno solo valore orientativo perché possono cambiare secondo la cultivar e la regione.

Fase fenologica Periodo d’inizio Durata Manifestazione
Riposo vegetativo dicembre–gennaio 1–3 mesi Attività dei germogli ferma o rallentata
Differenziazione a fiore febbraio
Ripresa vegetativa fine febbraio 20–25 giorni Emissione di nuova vegetazione di colore chiaro
Mignolatura metà marzo 18–23 giorni Mignole di colore verde, a maturità biancastre
Fioritura dagli inizi di maggio alla prima decade di giugno 7 giorni Fiori aperti e bene evidenti
Allegagione fine maggio–giugno Caduta dei petali, cascola di fiori e frutticini
Accrescimento frutti seconda metà di giugno 3–4 settimane Frutti piccoli ma bene evidenti
Indurimento del nocciolo luglio 7–25 giorni Arresto della crescita dei frutti. Resistenza al taglio di sezionamento
Accrescimento frutti agosto 1,5–2 mesi Aumento considerevole delle dimensioni dei frutti, comparsa delle lenticelle
Invaiatura da metà ottobre a dicembre Almeno metà della superficie del frutto vira dal verde al rosso violaceo
Maturazione completa da fine ottobre a dicembre Frutto con colorazione uniforme dal violaceo al nero.

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Pyrus Pero

Il pero è una di quelle piante che possono vantare delle origini davvero molto lontane nel tempo. Infatti questa pianta, che proviene dal continente asiatico, si è sviluppata un po’ in tutto il mondo, diffondendosi sotto forma di diverse specie, nonostante quelle che vengono coltivate siano all’incirca due o tre.
Il pero è uno di quegli alberi da frutto che si sviluppano alla perfezione in tutte quelle zone caratterizzate da un clima temperato. In particolar modo, all’interno della penisola italiana, si caratterizza per crescere ottimamente in ogni regione.

Ad ogni modo, il pero è una di quelle piante che non ha la necessità di ricevere particolari cure o lavorazioni riguardanti il terreno: nonostante ciò, è necessario prestare la massima attenzione all’irrigazione, dal momento che quest’albero soffre molto la siccità, così come tutti quei terreni in cui il livello del drenaggio è particolarmente basso e teme la formazione dei ristagni idrici.
La pianta
Nel corso dello sviluppo della pianta, nel momento in cui non subisca modificazioni artificiali ma venga lasciata crescere secondo i ritmi naturali, allora può arrivare fino a quindici metri di altezza, caratterizzata da una chioma da una forma tipicamente conica.

Le foglie del pero risultano, nella maggior parte dei casi, dalla conformazione tipicamente ovale e con una colorazione verde intensa, quasi brillante nella parte superiore.

I fiori della pianta di Pero si caratterizzano per presentare una tipica colorazione bianca e per avere cinque petali; infine, spostando la nostra attenzione sul frutto, possiamo notare come la forma possa essere differente in base alla varietà di Pero che si prende in considerazione.

Infatti, possiamo trovare di frutti tondeggianti e altri allungati: tutto dipende dalla varietà e anche il colore ne risente, visto che in natura ci sono delle pere verdi, rosse e anche gialle
Questo albero da frutto fiorisce nel corso del periodo compreso tra la prima e la seconda decade del mese di aprile: gran parte dei fiori del corimbo si aprono del tutto; tra la varie particolarità di questo evento, troviamo il fatto che il polline va a fecondare l’ovario attraverso un’impollinazione cosiddetta incrociata, visto che viene svolta da insetti definiti pronubi: in tutti questi casi, è di assoluta importanza che la fioritura dell’impollinatore e della varietà che è stata scelta avvengano più o meno nello stesso periodo, in maniera tale da garantire una maggiore possibilità che la fecondazione giunga a buon fine. Dopo tale fase, i petali cadono da soli.

I frutti, nel corso della fase di maturazione (che viene preceduta dall’allegagione e dall’ingrossamento del frutto) possono arrivare alla massima dimensione possibile e, allo stesso tempo, hanno anche acquisito ormai la colorazione tipica che dipende dalla specie di Pero a cui appartengono; inoltre, durante la fase di maturazione, i frutti sono riusciti anche da ottenere un corretto equilibrio tra le sostanze zuccherine quelle acide al loro interno.

La fase della maturazione comincia con la prima parte del mese di giugno e può durare anche fino a metà del mese di ottobre. Per quanto riguarda la caduta delle foglie, tale evento avviene soprattutto nel corso della stagione invernale, in particolar modo concentrandosi durante novembre e dicembre: una volta che finisce tale fase, ecco che la pianta di Pero comincia un riposo vegetativo, fino al momento in cui arriva la stagione primaverile successiva.

Il Pero è uno di quegli alberi da frutto che si sviluppano ottimamente all’interno di ambienti caratterizzati da un clima temperato-fresco: l’ideale, in Italia, è sicuramente la Pianura Padana, per quanto riguarda le condizione climatiche, visto che soffre ambienti eccessivamente esposti al vento, ma anche le temperature troppo elevate, sia in inverno che durante la stagione estiva, così come mal sopporta i lunghi periodi di siccità. Questo albero da frutto ha la necessità di ricevere anche diverse ore al giorno di sole e, per tale ragione, è meglio esporlo a sud, sud est e sud ovest.
Maturazione
La fase della maturazione comincia con la prima parte del mese di giugno e può durare anche fino a metà del mese di ottobre. Per quanto riguarda la caduta delle foglie, tale evento avviene soprattutto nel corso della stagione invernale, in particolar modo concentrandosi durante novembre e dicembre: una volta che finisce tale fase, ecco che la pianta di Pero comincia un riposo vegetativo, fino al momento in cui arriva la stagione primaverile successiva.

Il Pero è uno di quegli alberi da frutto che si sviluppano ottimamente all’interno di ambienti caratterizzati da un clima temperato-fresco: l’ideale, in Italia, è sicuramente la Pianura Padana, per quanto riguarda le condizione climatiche, visto che soffre ambienti eccessivamente esposti al vento, ma anche le temperature troppo elevate, sia in inverno che durante la stagione estiva, così come mal sopporta i lunghi periodi di siccità. Questo albero da frutto ha la necessità di ricevere anche diverse ore al giorno di sole e, per tale ragione, è meglio esporlo a sud, sud est e sud ovest.
Portainnesti
Il pero è uno di quegli alberi da frutto che ha la necessità di fare affidamento sui portainnesti per il suo sviluppo. Tra i vari portainnesti quello che viene maggiormente utilizzato per il pero è sicuramente rappresentato dal Cotogno.

Il cotogno è il portainnesto che viene di gran lunga preferito rispetto a tutti gli altri, per il semplice fatto che permette di rallentare il processo di sviluppo della pianta, mentre garantisce che i frutti della pianta giungano ad una veloce maturazione e siano anche di notevole fattura.

La pianta di Pero ha il suo punto debole nei terreni calcarei, ma non sopporta anche quei terreni particolarmente siccitosi: in questi casi, l’effetto più evidente sarà rappresentato dall’ingiallimento delle foglie. Tra gli altri portainnesti che sono utilizzati con buona frequenza troviamo anche quelli denominati “Franco” e “Selvatico”.

Nel primo caso, le piantine di Franco derivano dal seme di un pero che è stato coltivato, mentre nel secondo caso si tratta di una piantina che si sviluppo in modo del tutto spontaneo.

Tutti e due questi portainnesti si caratterizzano per fare in modo che la pianta diventi estremamente imponente e riesce anche a vivere più a lungo: tra le principali caratteristiche di questi elementi, troviamo sicuramente un apparato radicale in grado di svilupparsi in profondità e piuttosto rigido, senza dimenticare la resistenza nei confronti della siccità.
Concimazione
Alla stregua di tantissime altre piante, anche per l’albero del Pero il consiglio è quello di effettuare la concimazione: si tratta di un’operazione che deve avvenire almeno con cadenza annuale. Inoltre, è fondamentale utilizzare un letame che sia giunto completamente a maturazione, ma c’è anche la possibilità di sfruttare dei concimi di derivazione organica, mischiandoli con delle sostanze come fosforo, potassio e altri microelementi.

In particolar modo, il suggerimento è quello di puntare molto sull’azoto e sul fosforo, in particolar modo durante la stagione primaverile, in maniera tale da garantire alla pianta uno sviluppo più uniforme e una fruttificazione maggiore fino al mese di settembre.

Non dobbiamo dimenticare anche come l’utilizzo del potassio sia assolutamente fondamentale anche per via del fatto che condiziona notevolmente la colorazione dei frutti del Pero.
Coltivazione ad alberello
pero ad alberelloTra le varie forme di coltivazione di questo albero da frutto, troviamo indubbiamente quella ad alberello: in tutti questi casi, per poter far crescere un pero ad alberello, si dovrà necessariamente sfruttare un pollone.

La prima cosa da fare sarà quella di eseguire un taglio dopo aver piantato il pollone, ad un’altezza compresa tra 120 e 170 centimetri da terra: proprio in questo punto, durante il primo anno, si svilupperanno diversi rami.

Nel momento in cui inizierà il secondo anno, il consiglio è quello di conservare , come minimo, tre rami, riducendoli ad una lunghezza pari a 20 centimetri: durante la successiva stagione vegetativa, tali rami ne daranno luogo ad altri, in un ciclo continuo. Infine, nel corso del terzo anno di crescita, sarà necessario effettuare un altro taglio dei rami che sono cresciuti, accorciando anch’essi a 20 centimetri: in questo modo, si potrà arrivare all’obiettivo di ottenere una struttura rigida ed affidabile per la chioma.
Coltivazione a fuso e verticale
Tra gli altri tipi di coltivazione dell’albero di Pero, troviamo sicuramente quello a fuso: per fare in modo di realizzare un fuso, dovrà essere piantato un pollone, ma a differenza di quanto avviene con l’allevamento ad alberello, il taglio dovrà essere eseguito ad un’altezza pari a 50 centimetri. in questo modo, si potranno ricavare, durante il primo anno di vita, circa 5 rami dalla parte laterale, che dovranno essere leggermente ridotti nel corso del secondo anno di crescita (il consiglio è quello di eseguire questa operazione durante il mese di marzo), garantendo una forma piramidale alla pianta.

Un’altra tipologia di allevamento del Pero corrisponde al cordone verticale: per realizzarla, si dovrà piantare un pollone e il taglio dovrà eseguito ad un’altezza pari a 50 centimetri, sempre prestando la massima attenzione che il taglio avvenga appena al di sopra di una gemma, in maniera tale che si venga a formare una freccia verticale.

I rami che si svilupperanno durante il primo anno, andranno a concentrarsi soprattutto nella parte laterale e poi la parte apicale dovrà essere accorciata ad un’altezza apposita. Si tratta di un’operazione che si dovrà effettuare ogni anno, cercando sempre di ridurre leggermente i nuovi rami che si verranno a creare vicino al tronco, in maniera tale da garantire la formazione di una pianta dalla forma colonnare.

Pero: Malattie

Nel momento in cui dobbiamo fare i conti con i pericoli per questo albero da frutto, certamente c’è sempre da combattere la minaccia derivante dai parassiti animali, che nella maggior parte dei caso corrispondono alle cocciniglie e agli afidi.

Inoltre, il Pero può essere anche attaccato, ma in casi non molto frequenti, da Psilla gialla: stiamo parlando di un insetto succhiatore che va a colpire i tessuti meno vecchi della pianta, con una piccola puntura, provocando la fuoriuscita di una sostanza che poi è in grado di permettere una più veloce diffusione dei funghi, come ad esempio la fumaggine.

Le altre malattie, sempre a livello di funghi, che possono rappresentare una seria minaccia per questa pianta sono rappresentati principalmente dalla ticchiolatura (che è piuttosto nota a tutti i coltivatori di questo albero da frutto), senza dimenticare anche il mal bianco.

Ad ogni modo, risulta di vitale importanza evidenziare come il Pero sia un albero da frutto che possa anche essere colpito dal colpo di fuoco: si tratta non di una scottatura di raggi del sole, ma d una malattia batterica particolarmente pericolosa, che va a colpire la chioma e il tronco, provocando un’essiccatura estremamente veloce.

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Prunus persica (L.) Batsch Pesco

Il pesco non cresce spontaneamente in nessun luogo del mondo; trae la propria origine quasi sicuramente dalla Cina ma, per alcuni, dal Medio Oriente – Persia. Attualmente il pesco è uno degli alberi maggiormente coltivati e presenta tantissime specie e varietà, tra cui la pescanoce ma se ne trovano anche di tipo ornamentale. L’importazione del pesco in Europa si dice sia avvenuta ad opera di Alessandro Magno. Ad oggi i più grandi produttori di pesche sono gli Stati Uniti, l’Italia, la Spagna, la Grecia, la Cina, la Francia e l’Argentina; in Italia emergono le produzioni dell’Emilia-Romagna, della Campania, del Veneto e del Lazio. La maturazione dei frutti del pesco può avvenire da maggio a settembre a seconda del tipo di coltivazione. Il clima presente in Italia e nei paesi mediterranei è molto favorevole per lo sviluppo di alberi di pesco; questa pianta può resistere da temperature molto rigide di -15°C fino a valori subtropicali. L’albero del pesco, normalmente, può raggiungere un’altezza di otto metri, presenta radici non molto profonde, la corteccia che riveste il tronco è di colore bruno-cenere, i rami sono poco fitti e ben aperti di colore rosso-bruno. Le foglie del pesco hanno forma di lancia, sono strette e presentano contorni dentellati. I fiori generalmente fanno la loro comparsa in aprile prima della nascita delle foglie, sono di colore rosa, composti da cinque petali, mentre il calice è formato da cinque sepali saldati; i fiori del pesco sono ermafroditi e gli stami, cioè gli organi riproduttivi maschili, sono molto numerosi. Il frutto, la pesca, è una drupa carnosa di forma più o meno rotonda rivestita di una buccia con della peluria oppure liscia (tipica della pescanoce), il cui nocciolo racchiude un solo seme. In genere la polpa delle pesche è succosa, profumata e di colore giallo ma può essere anche bianca a seconda della varietà, ha un sapore dolce molto gradevole.
Le foglie, i fiori e la mandorla contenuta nel nocciolo contengono una sostanza chimica velenosa, quindi non vanno mai mangiati.
Varietà
nettarineLa specie Prunus Persica si divide in moltissime varietà, tutte con proprie caratteristiche tipiche e specifiche, di seguito vi illustreremo quelle maggiormente coltivate:

Pesca gialla: è la varietà maggiormente diffusa che troviamo sempre nei nostri supermercati e dai fruttivendoli, la sua polpa è molto dolce, succosa e con un gradevole profumo, presenta una buccia ricoperta di leggera peluria. Alcuni nomi di questa varietà possono essere: Springcrest, Royal Glory e Redhaven.

Pesca bianca: il colore bianco si riferisce alla polpa, anche questa varietà ha un sapore molto dolce.

Pescanoce: questa varietà è chiamata anche Nettarina, può presentare sia polpa gialla che bianca, ha una buccia liscia prima di peluria di colore rosso-bordeaux. Per citare alcuni nomi: Stark Redgold, Adriana, Caldesi.

Percoca: è una varietà di pesca gialla coltivata soprattutto in Campania ma diffusa massicciamente anche in Puglia, Basilicata e Calabria. Ha una polpa compatta e molto gustosa. Possiamo ricordare la percoca col pizzo, puteolana e terzarola.

Percoca Merendella: questa varietà è coltivata in modo particolare in Calabria, presenta una buccia liscia di colore bianco-verde.

Pesca tabacchiera: al contrario delle altre varietà citate, questa pesca presenta una forma schiacciata, molto saporita.

Un’altra varietà che possiamo trovare è la pesca di Bivona.
Tecniche di coltivazione
Nella maggior parte dei casi la coltivazione del pesco parte da piante di un anno già innestate; è però possibile sviluppare la pianta anche partendo dal seme che, prima di essere piantano in un terreno adatto, dovrà subire un processo di vernalizzazione, cioè verrà esposto a temperature tra i due e i cinque gradi, in ambiente umido ed aerato per un periodo più o meno lungo a seconda della specie; questo trattamento è necessario per garantire la germogliazione del seme. L’esposizione più gradita dal pesco è in pieno sole con una giusta dose di ventilazione. Il periodo migliore per l’operazione di messa a dimora è l’inizio della stagione invernale.

Partendo da piante già innestate, i sistemi usati negli allevamenti si possono dividere in: forme in volume, a parete verticale o inclinate; tutte queste forme si possono ottenere facilmente a seconda del tipo di potatura che si vorrà effettuare sulle piante. Attualmente il sistema più usato è quello in forme a parete verticale perché meno costoso.

Prima di iniziare la coltivazione del pesco, bisogna analizzare bene la fertilità del terreno, il tipo di allevamento, la varietà ecc. Come abbiamo detto in precedenza la potatura è molto importante, bisognerà aumentare la frequenza di questa operazione parallelamente alla crescita della pianta. Per ottenere pesche di grandezza ben commercializzabile bisognerà procedere al diradamento dei frutti che andrà fatto circa un mese dopo la piena fioritura. Naturalmente il terreno va nutrito correttamente affinché possa produrre frutti sani e belli. Mentre si prepara il terreno bisognerebbe eseguire un’abbondante concimazione facendo attenzione a fornire anche una giusta dose di azoto, fosforo e potassio, elementi indispensabili per un corretto e sano sviluppo delle piante.
Concimazione ed Irrigazione
Per sviluppare frutti in maggior quantità e di buone dimensioni, il pesco ha bisogno di una buona somministrazione di azoto. L’apporto di concime organico andrà fatta verso la fine della stagione invernale; durante il periodo primaverile invece, fase in cui la pianta sviluppa i suoi frutti, sarà opportuno provvedere alla somministrazione di concime ricco di azoto e potassio per favorirne la buona crescita.

L’apporto di acqua durante l’irrigazione deve essere regolare e dovrà essere maggiore prima della fase di raccolta dei frutti.
Raccolta ed Impiego
La raccolta delle pesche viene effettuata in più volte e può essere fatta sia manualmente che meccanicamente. In ambito industriale dopo la raccolta le pesche passano alla fase di lavorazione dopo sarà fatta una prima scelta, un lavaggio e il successivo confezionamento. La pesca può essere mangiata fresca, ma anche sottoforma di marmellata, confettura, sciroppata, essiccata o di liquore.

Malattie e Parassiti

Moltissime sono le malattie e i parassiti che possono attaccare il pesco, ovviamente non ve le spiegheremo tutte per questione di tempi e spazi, ma cercheremo di mettervi in guardia dalle più dannose e pericolose illustrandovi i vari sintomi della pianta e i possibili rimedi.

Il tumore radicale, come dice il nome stesso, colpisce le radici della pianta provocandone la degenerazione e la perdita delle funzionalità. Questa patologia è provocata da un batterio che intacca la pianta attraverso le ferite presenti nelle radici provocate dalle varie fasi di lavorazione.

La bolla è provocata da un fungo che attacca germogli, fiori e foglie e, in modo molto raro, i frutti. Le parti colpite, appunto, presentano delle bolle e delle deformazioni. Porta alla caduta delle foglie, ad un indebolimento della pianta con un conseguente calo di produzione dei frutti.

Il cancro dei rametti è anch’esso da un fungo che attacca le gemme e i rametti della pianta. Quando infestata, nei mesi primaverili la pianta presenta delle lesioni scure intorno alla gemma ed espandendosi ai rametti ne provoca il rinsecchimento. La pianta diventa debole. Questo fungo può attaccare anche il fusto della pianta, in questo caso, anche se raramente, potrebbe provocare la morte della stessa.
Il seccume rameale è un’altra malattia provocata da un fungo che attacca il tronco della pianta, provocando sui rami delle macchie scure che possono trasformarsi in veri e propri cancri, in questo caso la pianta potrebbe morire.

Il mal bianco è una patologia provocata da un fungo che attacca fogli e frutti in età giovane creando su di essi delle macchie prive di colore sulle quali si forma della muffa bianca. I frutti infestati possono cadere o morire.

La moniliosi è un’altra malattia causata da un fungo che attacca quasi tutte le parti della pianta, foglie, fiori, frutti, rami.

Questa pianta può essere soggetta anche a marciume radicale, in questo caso le parti prese di mira sono il colletto e le radici, le foglie ingialliscono, la pianta si indebolisce e piano piano muore.

La minatrice dei germogli è un insetto le cui larve attaccano i fiori e scavano gallerie alla base delle foglie e dei germogli provocandone l’indebolimento.

La tignola orientale è anch’essa un insetto pericoloso per il pesco, le larve attaccano i fiori e, come la minatrice dei germogli, scavano gallerie alla base delle foglie e nei germogli portandoli ad indebolimento.

La mosca mediterranea della frutta è un insetto che infesta i frutti creando su di essi delle macchie gialle e rotonde. I frutti prodotti dalla pianta saranno meno commercializzabili.

Le cicaline sono degli insetti che attaccano la parte inferiore delle foglie creando su di esse delle macchie di colore bianco. Anche i frutti vengono macchiati e perdono un po’ del valore di mercato.

Anche afidi, cocciniglie e ragnetto rosso sono nemici di questa pianta.
Proprietà
Lo sciroppo di fiori di pesco può avere effetto sedativo e lassativo ed è prescritto frequentemente ai bambini. La pesca è molto ricca di acqua, di minerali tra cui sodio, ferro, potassio, fosforo e vitamine. Ha proprietà antispasmodiche, rinfrescanti e vermifughe. E’ un frutto molto energetico. La polpa della pesca vanta proprietà rinfrescanti e disintossicanti e viene usata anche in cosmetica. Secondo recinti studi la pesca ha anche delle proprietà antiossidanti utili per combattere i radicali liberi. La pesca contiene anche betacarotene utile per favorire l’abbronzatura. La presenza di potassio può avere effetti molto benefici per il sistema nervoso e il battito cardiaco; la vitamina C presente in questo frutto è molto importante per combattere infezioni, rendere maggiormente forti le ossa e per favorire l’assorbimento del ferro nel sangue.

Oltre ad avere tutti questi importanti pregi e proprietà, la pesca è anche molto buona, quindi mangiamo le pesche e troveremo giovamento fisico e psichico.

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Prunus domestica L. Susino

Prunus domestica è una pianta di origini incerte, si presume possa provenire dalle regioni del sud-est asiatico. Introdotta e coltivata anche in Europa da più di duemila anni. Il susino si divide in due gruppi distinti geograficamente l’un dall’altro: il susino europeo e il susino cino-giapponese. Il susino europeo ha foglie ovali di color verde scuro e piuttosto spesse con la pagina inferiore leggermente pelosa, i fiori, che spuntano prima delle foglie sono bianchi.
I frutti, a parte qualche varietà sono generalmente ovaliformi con colore che varia dal giallo, verde, rosso e viola-blu. Spesso la polpa si stacca dal nocciolo ed è usata sia per il consumo fresco sia per l’essiccamento, è anche noto il loro potere lassativo e l’elevata quantità di zuccheri, che danno al frutto un ottimo valore nutritivo.

Il susino cino-giapponese ha foglie lanceolate di color verde chiaro, molto sottili, i fiori sono bianchi e la fioritura avviene più precocemente rispetto al susino europeo. I frutti sono generalmente di forma tondeggiante, il colore varia dal giallo al rosso a blu-nero e sono coltivati esclusivamente per il consumo fresco.

Portainnesti
Solitamente è usato come portainnesti per il susino il mirabolano che dà alla pianta un notevole sviluppo e una buona longevità. La produttività è ottima e non ha particolari esigenze di terreno. Un’altro portainnesti è il susino San Giuliano che ha un’ottima affinità d’innesto, una buona produttività. Per le varietà di susino cino-giapponese, si usa come portainnesti anche il pesco che, ha buona affinità, rende la pianta molto produttiva, ma meno longeva.

Altre portainnesti interessanti sono il franco, che si comporta molto bene e permette di avere piante sane e vigorose e il Pixy. A seconda del tipo di portainnesto scelto, si otterranno piante di altezze differenti e adatte a substrati con caratteristiche variabili.

Impollinazione
Le piante di susino europeo sono nella maggior parte dei casi autofertili, in ogni modo la presenza di diverse varietà ne aumenta notevolmente la produzione di frutti. Molte varietà cino-giapponesi sono invece autosterili, perciò spesso è necessario piantare due o più varietà in grado di fecondarsi reciprocamente, ovviamente è indispensabile che fioriscano nello stesso periodo. In molti casi i susini dopo la fioritura, producono più frutti di quelli che la pianta è in grado di portare a maturazione. Per ottenere un buona produzione è consigliato il diradamento dei frutticini.

Concimazione
Come per moltissime altre piante, anche per il susino si consiglia di usare concimi organici come il letame o lo stallatico durante il periodo di riposo vegetativo, mentre in primavera- estate, si possono usare concimi NPK, vale a dire a base di azoto, fosforo e potassio evitando di utilizzarli durante i periodi più caldi e siccitosi.

Malattie
I parassiti animali che più attaccano il susino sono in particolare gli afidi, che si sviluppano sull’estremità dei germogli. Possibili sono anche attacchi di cocciniglie che, se presenti in modo massiccio, posso causare un generale indebolimento della pianta con danni anche ai frutti. Un’altro parassita che provoca danni rilevanti è la tignola delle susine che depone le uova nelle foglie e nei frutti provocandone una precoce caduta.

Patogeni di origine fungina cui il susino è soggetto è il corineo che produce delle macchie sulla foglia che necrotizzano i tessuti lasciandole bucherellate.Forme di allevamento
A pienovento

Il susino è un albero tipicamente a pieno vento (crescita naturale). È possibile formare la chioma su fusto medio a circa 120 cm, oppure ad alto fusto a circa 180-200 cm.

Partendo da un pollone di un anno appena piantato, si dovrà subito tagliarlo all’altezza desiderata dopo di che, l’anno successivo, si conserveranno almeno tre rami che si dovranno accorciare a 20-25 cm dal punto di partenza, questi produrranno a loro volta altri rami che saranno anch’essi accorciati. Così facendo si irrobustirà il tronco e i rami che cresceranno in seguito saranno sufficienti per formare la chioma definitiva. In seguito si faranno solo interventi di diradamento interno della chioma e l’eliminazione di rami secchi o danneggiati.

A vaso nano

Per formare il vaso è necessario piantare un pollone di un anno e tagliarlo a 40-50 cm dal suolo. All’inizio del secondo anno si accorceranno a 30-40 cm almeno quattro rami vigorosi tenendoli lontani dal centro, che a loro volta daranno altri rami dei quali si conserveranno solo quelli esterni. Accorciare ancora anche questi rami in modo da irrobustire ulteriormente la pianta, dopo di che la crescita sarà lasciata libera praticando solo qualche potatura di sfoltimento eliminando i rami disordinati.

A palmetta o spalliera
Questo tipo di forma è molto utile nel caso in cui si voglia guarnire dei muri o delle recinzioni.In questo caso si dovrà piantare un pollone di un anno tagliato a 50 cm da terra e l’anno successivo conservare almeno quattro rami, disponendoli su due piani e ancorati ad un sostegno, che può essere un filo di ferro sostenuto da due paletti ai lati della pianta oppure ad un traliccio. Per questo tipo di forma è consigliato utilizzare varietà di basso o medio sviluppo.

Susino – Prunus domestica: Susino

Per la coltivazione del prunus domestica è bene rispettare alcune indicazioni sull’esposizione e il tipo di terreno; questa pianta è abbastanza rustica e resistente, tanto che nel periodo di riposo vegetativo può sopportare senza particolari danni temperature che possono arrivare anche a -15 °C. La messa a dimora di queste piante dovrebbe avvenire nel periodo autunnale, prima che le temperature si abbassino e ci sia il pericolo di gelate. Il terreno migliore per la coltivazione è quello piuttosto ricco di sostanze organiche, drenante e non troppo pesante, anche se, data la rusticità della pianta, il prunus domestica può crescere anche in terreno compatti con una percentuale elevata di argilla; fondamentale, però, è che il substrato non consenta la formazione di ristagni idrici che potrebbero provocare marciumi radicali. Questa varietà si adatta bene alle differenti condizioni ambientali e può resistere anche in ambienti caldi. L’esposizione, per avere un raccolto abbondante, deve essere in pieno sole. Può subire danni nel caso si presentino gelate tardive. Per le piante giovani è bene procedere con annaffiature costanti, soprattutto nei periodi più caldi dell’anno. La raccolta dei frutti cambi.

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Vitis vinifera L. Vite

Vitis vinifera è il nome botanico che viene dato ad una delle piante più diffuse a livello mondiale, anche se maggiormente nelle zone con climi temperati, come ad esempio il bacino del Mediterraneo. Si tratta della vite, la pianta che produce il suo singolare frutto formato da acini, ovvero l’uva, che si usa sia per il consumo a tavola, che per produrre il vino. Ma la vite, e l’uva, fin dai tempi antichi sono conosciute e usate anche a scopo medicamentoso. L’uva, ad esempio, ha proprietà astringenti e rinfrescanti, alcuni studi medici sostengono anche che un consumo di vino elevato porterebbe giovamento all’apparato cardiovascolare, con l’effetto collaterale però dell’alcol, nocivo per il fegato. In erboristeria oggi sono ampiamente usati gli estratti di vite rossa, che servono per curare molti malesseri legati soprattutto alla debolezza di vene e capillari.in base alla varietà coltivata; è possibile dire che essa va all’incirca da giugno a settembre.
In erboristeria si parla di vite rossa, che è una particolare cultivar di vitis vinifera, che si caratterizza per la produzione di grappoli di uva nera con polpa molto soda. La particolarità di questo tipo di vite è che, al termine del periodo di produzione dell’uva, le foglie di vite, da verdi, cominciano a diventare rosse. All’interno delle foglie si trovano le sostanze che vengono normalmente impiegate nei preparati erboristici. Infatti, affinché essi possano esercitare davvero degli effetti benefici, bisogna che vengano presi in dosi ben specifiche, che possono essere garantite solo da compresse o altri formati appositamente confezionati. La vite rossa, per il resto, ha le stesse caratteristiche di una qualunque pianta di vite, con foglie lobate decidue, fusto contorto e irregolare, e cirri che consentono alla pianta di abbarbicarsi ai suoi sostegni

Le proprietà benefiche della vite rossa
Ma quali sono esattamente le proprietà benefiche per l’organismo umano esercitate dagli estratti di vite rossa?
La vitis vinifera, insieme al mirtillo nero, è riconosciuta come uno dei più potenti antiossidanti che esistano in natura. Questo vuol dire che contrasta l’invecchiamento cellulare, contribuendo a mantenere in buona salute sia gli organi interni che i rivestimenti esterni del corpo. Nelle foglie si trova infatti un’altissima concentrazione di polifenoli, soprattutto il resveratrolo, e di bioflavonoidi. Queste sostanze sono presenti anche nei semi degli acini e nella loro buccia, ma in concentrazioni minori. Sono i bioflavonoidi ad avere azione antiossidante, oltre che anti infiammatoria. L’effetto più significativo si riscontra a livello delle vene capillari, che vengono irrobustite e rese più elastiche dall’assunzione di estratti di vite rossa.

Vite rossa: Come assumere la vite rossa. Preparati erboristici a base di vite rossa.
La vite rossa è di aiuto per chi soffre di vene varicose e di cellulite, per chi è affetto da emorroidi e gambe gonfie e pesanti. Siccome i suoi estratti aiutano l’apparato circolatorio in generale, la vite rossa è utile anche nel caso di problemi alla vista, specie di disturbi a livello della retina. In campo erboristico, la vite rossa si può assumere sotto forma di tisane e decotti, ma a scopo curativo e medicinale ciò non apporta molto giovamento, perchè non consente di tenere sotto controllo le quantità. Viceversa, in commercio si possono trovare molti preparati, sotto forma per lo più di capsule, che permettono di dosare in modo esatto il quantitativo di medicinale necessario per avere reale giovamento nella cura di una determinata patologia, o di uno specifico disturbo. La vite rossa inoltre non ha controindicazioni; se ne consiglia solo un consumo moderato alle donne in gravidanza, a puro scopo precauzionale.

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Frutti minori

Castanea Sativa

Il castagno europeo (Castanea sativa Mill., 1768), in Italia più comunemente chiamato castagno, è un albero appartenente alla famiglia delle Fagaceae e al genere Castanea, di cui è l’unica autoctona presente in Europa. Negli ultimi decenni è stato sovente introdotto, per motivi fitopatologici, il castagno giapponese (Castanea crenata). Le popolazioni presenti in Europa sono perciò principalmente riconducibili a semenzali di castagno europeo o a castagni europei innestati sul giapponese o a ibridi delle due specie.
Importanza economica e diffusione

Il castagno è una delle più importanti essenze forestali dell’Europa meridionale, in quanto ha riscosso, fin dall’antichità, l’interesse dell’uomo per i molteplici utilizzi. Oltre all’interesse intrinseco sotto l’aspetto ecologico, questa specie è stata largamente coltivata, fino ad estenderne l’areale, per la produzione del legname e del frutto. Quest’ultimo, in passato, ha rappresentato un’importante risorsa alimentare per le popolazioni rurali degli ambienti forestali montani e, nelle zone più fresche prealpine, d’alta collina, in quanto erano utilizzate soprattutto per la produzione di farina di castagne.

L’importanza economica del castagno ha attualmente subito un drastico ridimensionamento: la coltura da frutto è oggi limitata alle cultivar di particolare pregio e anche la produzione del legname da opera si è marcatamente ridotta. Del tutto marginale, infine, è l’utilizzo delle castagne per la produzione della farina, che ha un impiego secondario nell’industria dolciaria.

Si ritiene che buona parte delle superfici forestali a castagno siano derivate da una rinaturalizzazione di antiche coltivazioni abbandonate nel tempo[1], mentre la coltivazione si è ridotta alle stazioni più favorevoli, dove è possibile ottenere le migliori caratteristiche merceologiche del cacumi, in particolare il legname.
Descrizione botanica
Tavola botanica.

Il castagno è una pianta arborea, con chioma espansa e rotondeggiante ed altezza variabile, dai 10 ai 30 metri. il castagno è una specie eliofila, caducifoglie e latifoglie. I castagni sono alberi molto longevi, possono diventare plurimillenari. La fioritura avviene a giugno e la fruttificazione a settembre-ottobre a seconda delle varietà.

In condizioni normali sviluppa un grosso fusto colonnare, con corteccia liscia, lucida, di colore grigio-brunastro. La corteccia dei rami è di colore bianco ed è cosparsa di lenticelle trasverse. Con il passare degli anni, generalmente dai quarant’anni in poi, la corteccia inizia a fessurarsi longitudinalmente a partire dal colletto.

Le foglie sono alterne, provviste di un breve picciolo e, alla base di questo, di due stipole oblunghe. La lamina è grande, lunga anche fino a 20-22 cm e larga fino a 10 cm, di forma lanceolata, acuminata all’apice e seghettata nel margine, con denti acuti e regolarmente dislocati. Le foglie giovani sono tomentose, ma a sviluppo completo sono glabre, lucide e di consistenza coriacea.

I fiori sono unisessuali, presenti sulla stessa pianta. I fiori maschili sono riuniti in piccoli glomeruli a loro volta formanti amenti eretti, lunghi 5–15 cm, emessi all’ascella delle foglie. Ogni fiore è di colore biancastro, provvisto di un perigonio suddiviso in 6 lobi e un androceo di 6-15 stami. I fiori femminili sono isolati o riuniti in gruppi di 2-3. Ogni gruppo è avvolto da un involucro di brattee detto cupola.

Il frutto è un achenio, comunemente chiamato castagna, con pericarpo di consistenza cuoiosa e di colore marrone, glabro e lucido all’esterno, tomentoso all’interno. La forma è più o meno globosa, con un lato appiattito, detto pancia, e uno convesso, detto dorso. Il polo apicale termina in un piccolo prolungamento frangiato, detto torcia, mentre il polo prossimale, detto ilo, si presenta leggermente appiattito e di colore grigiastro. Questa zona di colore chiaro è comunemente detta cicatrice. Sul dorso sono presenti striature più o meno marcate, in particolare nelle varietà del gruppo dei marroni. Questi elementi morfologici sono importanti ai fini del riconoscimento varietale.

Gli acheni sono racchiusi, in numero di 1-3, all’interno di un involucro spinoso, comunemente chiamato riccio, derivato dall’accrescimento della cupola. A maturità, il riccio si apre dividendosi in quattro valve. Il seme è ricco di amido.
Esigenze ed adattamento

Il castagno è una specie mesofila e moderatamente esigente in umidità. Sopporta abbastanza bene i freddi invernali, subendo danni solo a temperature inferiori a -25 °C, ma diventa esigente durante la stagione vegetativa. Per questo motivo il castagno ha una ripresa vegetativa tardiva, con schiusura delle gemme in tarda primavera e fioritura all’inizio dell’estate. Al fine di completare il ciclo di fruttificazione, la buona stagione deve durare quasi 4 mesi. In generale tali condizioni si verificano nel piano montano (600–1300 m) delle regioni mediterranee o in alta collina più a nord. In condizioni di umidità favorevoli può essere coltivato anche nelle stazioni fresche del Lauretum, spingendosi perciò a quote più basse. Condizioni di moderata siccità estiva determinano un rallentamento dell’attività vegetativa nel mezzo della stagione e una fruttificazione irregolare. Le nebbie persistenti e la piovosità eccessiva nei mesi di giugno e luglio ostacolano l’impollinazione incidendo negativamente sulla fruttificazione.

Nelle prime fasi tollera un moderato ombreggiamento, fatto, questo, che favorisce una buona rinnovazione nei boschi maturi, ma in fase di produzione manifesta una maggiore eliofilia.
Corteccia e lenticelle nei giovani getti.

A fronte delle moderate esigenze climatiche, il castagno presenta notevoli esigenze pedologiche, perciò la sua distribuzione è strettamente correlata alla geologia del territorio. Sotto l’aspetto chimico e nutritivo, la specie predilige i terreni ben dotati di potassio e fosforo e di humus. Le condizioni ottimali si verificano con pH di terreni neutri o moderatamente acidi; si adatta anche ad un’acidità più spinta, mentre rifugge in genere dai suoli basici, in quanto il calcare è moderatamente tollerato solo nei climi umidi. Sotto l’aspetto granulometrico predilige i suoli sciolti o tendenzialmente sciolti, mentre non sono tollerati i suoli argillosi o, comunque, facilmente soggetti ai ristagni. In generale sono preferiti i suoli derivati da rocce vulcaniche (tufi, trachiti, andesiti, ecc.), ma vegeta bene anche nei suoli prettamente silicei derivati da graniti, arenarie quarzose, ecc., purché sufficientemente dotati di humus. I suoli calcarei sono tollerati solo nelle stazioni più settentrionali, abbastanza piovose, mentre sono mal tollerate le marne.
Attuale distribuzione

Il castagno vegeta in un areale circumediterraneo, ad estensione frammentata, che si estende dalla penisola iberica alle regioni del Caucaso prossime al Mar Nero. In Europa, la maggiore estensione si ha nelle regioni occidentali: è diffuso nel centro e nord del Portogallo e nelle regioni settentrionali della Spagna, in gran parte del territorio della Francia, fino ad estendersi nel sud dell’Inghilterra, nel versante tirrenico della penisola italiana e nell’arco alpino fino ad arrivare alla Slovenia e alla Croazia. Qui l’areale si interrompe per riprendere dalle regioni meridionali della Bosnia e del Montenegro ed estendersi in gran parte dei territori dell’Albania, della Macedonia e della Grecia. Infine riprende dalle regioni occidentali della Turchia, estendendosi a quelle settentrionali lungo il Mar Nero, giungendo fino al Caucaso.

Diffusioni sporadiche si hanno in Germania, in Bulgaria, in Romania e nel Nordafrica, nelle regioni dell’Atlante. Nel Mediterraneo, infine, è presente in gran parte del territorio della Corsica, nelle regioni centrali della Sardegna, in Sicilia sui monti Peloritani, Nebrodi, Madonie, Iblei, Sicani ed Etna, infine, in quelle occidentali dell’isola d’Elba.
Ricci in accrescimento.

In Italia vegeta nella zona fitoclimatica del Castanetum, a cui dà il nome, estendendosi anche nelle zone più fresche del Lauretum, per introduzione da parte dell’uomo. In genere si ritrova su quote variabili dai 200 metri s.l.m. fino agli 800 m nelle zone alpine, mentre nell’Appennino meridionale può spingersi fino ai 1000-1300 metri. La distribuzione è frammentata perché legata a particolari condizioni climatiche e geologiche. La maggiore diffusione si ha perciò in tutto il versante tirrenico della penisola, dalla Calabria alla Toscana e alla Liguria, e nel settore occidentale dell’arco alpino piemontese. Nel versante adriatico e nel Triveneto la sua presenza è sporadica e nella Pianura Padana è praticamente assente. Nelle isole è presente in areali frammentati nelle isole maggiori, circoscritti alle stazioni più fresche. La concentrazione di maggior rilievo si ha in Campania, (Irpinia) che contribuisce per circa il 50% all’intera produzione nazionale di castagne.

È dunque una tipica essenza degli ambienti boschivi collinari e di quelli montani di bassa quota. L’ecosistema forestale tipico del castagno è la foresta decidua temperata mesofila, dove forma associazioni in purezza o miste, affiancandosi alle Quercus (per lo più farnia e roverella), al frassino, al carpino nero, al noce, al nocciolo, ecc. Per le sue caratteristiche è una specie strettamente associata alla roverella, tipica mesofita della foresta mediterranea decidua.

Utilizzo
il frutto è utilizzato da tempi antichissimi, come si è detto, per la produzione di farina di castagne. Questo impiego ha oggi un’importanza marginale e circoscritta alla produzione di dolci tipici, come il castagnaccio e il Panmorone (dolce tipico di Campomorone). Ancora diffusa è invece la destinazione dei frutti di buon pregio al consumo diretto, concentrato nei mesi autunnali, e alla produzione industriale di confetture e marron glacé. Interesse del tutto marginale ha il possibile impiego dei frutti come alimento per gli animali domestici.

La corteccia e il legno del castagno sono particolarmente ricchi di tannini (circa il 7%) e possono essere impiegate per la sua estrazione, destinata alle concerie. Questa destinazione d’uso, in Italia, ha riscosso un particolare interesse nei primi decenni del XX secolo, epoca in cui l’industria del tannino nazionale faceva largo impiego del castagno, ma dopo il 1940 ha perso importanza sia per la contrazione di questo settore sia per il ricorso, come materia prima, al legno di scarto.
Legno

Il legno di castagno è caratterizzato dalla formazione precoce del durame, perciò presenta un alburno sottile. Il durame è bruno, mentre l’alburno è grigio chiaro. Strutturalmente è un legno eteroxilo con porosità anulare e tende a sfaldarsi in corrispondenza degli anelli.

Fra i suoi pregi si citano la durevolezza e la resistenza all’umidità, perciò si presta per l’impiego come legno strutturale; la facilità di lavorazione lo rendono adatto ad essere impiegato per la realizzazione di vari manufatti. È inoltre un legno semiduro, adatto secondariamente anche per lavori di ebanisteria.

La precocità di formazione del durame rende inoltre possibile l’attuazione di turni di ceduazione relativamente brevi, naturalmente in funzione del tipo di assortimento mercantile richiesto. La densità è dell’ordine di 1 t/m³ nel legno fresco e di 0,58 t/m³ per quello stagionato.

Il legno lavorato presenta tonalità variabili dal giallo al rossastro, venature sottili e una spiccata nodosità.

Per le sue caratteristiche tecnologiche, il castagno è stato tradizionalmente usato per molteplici impieghi e la realizzazione di travi, pali, infissi, doghe per botti, cesti e mobili, oltre alla già citata estrazione del tannino. Attualmente la sua destinazione principale è l’industria del mobile.

Apicoltura

L’apicoltura è un’attività accessoria che può appoggiarsi alla castanicoltura. Pur avendo impollinazione prevalentemente anemogama, i fiori maschili del castagno sono bottinati dalle api, che ne raccolgono il polline ed il nettare: perciò questa pianta è considerata mellifera. Il miele di castagno ha una colorazione variabile dall’ambra al bruno scuro, retrogusto amaro, resiste alla cristallizzazione per lungo tempo, è particolarmente ricco di fruttosio e polline. La sua produzione si localizza naturalmente nelle zone a maggiore vocazione per la castanicoltura e, principalmente, nella fascia submontana fra i 500 e i 1000 metri di altitudine, lungo l’arco alpino, il versante tirrenico della fascia appenninica e nelle zone montane della Sicilia settentrionale.
Erboristeria

L’uso del castagno a scopo medicamentoso è un aspetto marginale, tuttavia questa specie è considerata pianta officinale nella farmacopea popolare[11]: per il contenuto in tannini, la corteccia ha proprietà astringenti, impiegabile in fitocosmesi per il trattamento della pelle. Alle foglie, oltre alle proprietà astringenti, sono attribuite proprietà blandamente antisettiche e sedative della tosse.

Sempre nella farmacopea popolare di alcune regioni, la polpa delle castagne, cotta e setacciata, trova impiego in fitocosmesi per la preparazione di maschere facciali detergenti ed emollienti.

Varietà
Riccio di varietà del gruppo dei “Marroni”.

Per le sue prerogative, in quanto coltivato dall’antichità e secondo consuetudini locali, il castagno vanta un vasto patrimonio genetico costituito da varietà di interesse regionale, ottenute nel corso dei tempi propagando singoli cloni[13]; spesso tipi ascrivibili alla stessa origine genetica hanno denominazioni differenti secondo la località. Le varietà più pregiate sono quelle atte alla canditura, usate per la produzione del marron glacé, e sono genericamente chiamate Marrone associandone il nome alla località di provenienza.

Contrariamente a quanto si pensa non tutte le varietà a frutto grosso rientrano nel gruppo dei marroni.
Il marrone ha infatti le seguenti caratteristiche:

frutto di grossa pezzatura, in numero di uno per riccio;
facilità di sbucciatura del seme;
striatura della buccia (in rilievo);
cicatrice ilare rettangolare;
sterilità dei fiori maschili;
bassa produttività.

Altre varietà, non comprese nel gruppo dei marroni, sono di pezzatura grossa e adatte alla canditura: sono tali la Montemarano o Castagna di Avellino, alcune varietà piemontesi (Castagna della Madonna, Marrubia), il marroncino di Melfi e un gruppo di varietà denominate genericamente Garrone.

Le varietà destinate all’essiccazione o all’estrazione di farina sono di importanza marginale e da tutelare per la conservazione del germoplasma in quanto posseggono spesso particolari proprietà qualitative o fisiologiche. Fra le più famose è citata la toscana Carpinese o Montanina, varietà a frutto piccolo adatta alla produzione di farina.

I tipi adatti alla castanicoltura da legno sono stati invece selezionati da vecchie varietà da farina che presentavano particolari requisiti ai fini della selvicoltura: rapido accrescimento, regolarità dei fusti, limitata emissione di rami e grandi dimensioni. Questi requisiti sono infatti finalizzati ad ottenere, in tempi relativamente brevi, assortimenti mercantili di discrete dimensioni e di buona qualità tecnologica.

Va infine citata l’introduzione degli ibridi Castanea sativa x crenata, per la castanicoltura da frutto in Piemonte e per la castanicoltura da legno in Francia.

 

 

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Ficus carica L. Fico

Il fico, Ficus carica, è un albero da frutto di origine mediorientale, rustico, longevo e di facile coltivazione.
Caratteristiche generali del fico
Il fico è un albero con apparato radicale robusto e profondo.

Il tronco corto e ramificato è ricoperto da corteccia di colore grigio.
Le foglie grandi e rugose a tre e cinque lobi hanno la pagina inferiore di colore verde più chiaro ricoperta da una fitta peluria.
Le infiorescenze che si formano all’ascella delle foglie apicali sono dette siconi.

Il siconio con forma sferica o allungata presenta una buccia il cui colore varia dal verde chiaro al nero.
Il siconio è un ricettacolo carnoso nel cui interno sono contenuti gli acheni, i veri frutti.

I primi frutti raccolti tra maggio – giugno dalle varietà di fico “bifere” sono chiamati “fichi fioroni” mentre quelli raccolti tra agosto -settembre sono detti “fichi veri” e sono di pezzatura più piccola.
Coltivazione del fico
Esposizione: il fico predilige le esposizione soleggiate e riparate dai venti. Ama i climi medio temperati e non tollera le temperature rigide.

Terreno: predilige calcarei, asciutti e ben drenati.

Concimazione: a fine inverno somministrare concime organico o un sovescio di leguminose.

Irrigazione: il fico è una pianta che si accontenta delle piogge.
Moltiplicazione del fico
La moltiplicazione del fico avviene per seme, talea, propaggine e per innesto. La riproduzione per seme viene utilizzata solo per ottenere nuove varietà.

La tecnica più usata presso i vivai è la talea di ramo.
Le talee di ramo, lunghe circa 30 cm, vanno interrate lasciando fuori dal terreno solo una gemma.

La propaggine si effettua fissando dei rami al terreno , mantenuto umido, staccandolo a radicazione avvenuta dalla pianta pianta madre.

L’innesto a corona o a gemma è la tecnica più utilizzata nei frutteti al fine di produrre diverse varietà di fico.

Impianto del fico
L’impianto del fico si effettua fine inverno distanziando le piante tra loro da 6 a 10 metri a seconda delle cultivar.

Dopo l’impianto la pianta viene capitozzata ad 1 metro e poi allevata in forma libera.
Fruttificazione
La produzione abbondante dei frutti avviene generalmente dal 5° al 40° anno di impianto dell’albero.
Potatura del fico
La potatura del fico si effettua in inverno eliminando i rami secchi, i più lunghi, quelli disordinati e tutti polloni.

Raccolta dei fichi
La raccolta scalare si effettua a seconda delle cultivar e del clima da giugno ad ottobre – novembre. I frutti al momento della raccolta vanno staccati dai rami con tutto il peduncolo.
Malattie e Parassiti
Il fico è una pianta che soffre alcune malattie di origine virale, il marciume radicale, la psilla del fico e talvolta l’attacco delle cocciniglie.
Fico e proprietà
I fichi sono frutti di stagione gustosi e dalle ottime proprietà nutritive : fichi proprietà e calorie
Conservazione dei fichi
Il fico è un frutto che si conserva previa essiccazione. Nello stato di frutta secca l’apporto calorico per 100 g passa dalle circa 70 Calorie della frutta fresca a 220 Calorie per i fichi secchi.

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Diospyros kaki Kaki o diospiro

Il kaki è una pianta che proviene dal Giappone e dalle regioni montuose della Cina: il suo arrivo nel Vecchio Continente si può far risalire alla seconda metà dell’Ottocento e si può trovare sul territorio italiano da più di un secolo.
Il kaki è un albero che può arrivare fino ad un’altezza massima pari a 12 metri; inoltre, tra le sue principali caratteristiche, presenta una chioma globosa, mentre le foglie hanno una forma ovale e hanno la pagina superiore estremamente lucida.
Si tratta di una pianta che è in grado di produrre dei frutti dalla forma sferica, che si caratterizzano per avere un’elevata dimensione ed una colorazione arancione che, nella maggior parte dei casi non si possono mangiare nel momento in cui vengono raccolti.

Infatti, in seguito alle operazioni di raccolta che si verifica nel corso del mese di novembre, in particolar modo nel momento in cui tutte le foglie sono cadute, . Per poter rendere più veloce il processo di maturazione, il suggerimento è, spesso, quello di infilare i kaki all’interno di cassette insieme a delle mele mature.

Il kaki si caratterizza per produrre dei frutti con un elevato valore biologico, anche per via del fatto che la polpa presenta al suo interno un gran numero di vitamine e proteine, oltre ad essere altamente ricca di zuccheri.
Il kaki non predilige un particolar stato del terreno, anche se la sua preferenza va per tutti i terreni freschi e profondi, mentre non si sviluppa alla perfezione sui terreni calcarei e con un livello di umidità eccessivo.

Il kaki si sviluppa perfettamente all’interno di tutti quei luoghi che si caratterizzano per avere un clima temperato e caldo, anche se è comunque in grado di adattarsi a dei climi che presentano delle temperature decisamente inferiori ai dieci gradi.

E’ importante evidenziare, però, come questa pianta non abbia una grande resistenza nei confronti del gelo e delle rigide temperature, in particolar modo quando la colonnina di mercurio scende sui – 7 e -10 gradi centigradi.
Infatti, nel momento in cui la temperatura tocca i valori minimi che abbiamo da poco citato, si possono verificare dei gravi danni alla pianta del kaki, in modo particolare a quelle più giovani, che presentano certamente una sensibilità molto più elevata, in particolar modo alle temperature rigide.

Proprio nel caso in cui si abbia a che fare con delle temperature notevolmente ridotte, il suggerimento è quello di garantire un’adeguata protezione alle piante di kaki più giovane, magari provvedendo ad avvolgere il fusto utilizzando dei fasci di paglia.
Sviluppo
kaki2Il kaki si caratterizza per essere una di quelle piante da frutto che si sviluppano alla perfezione negli ambienti che possono contare su un clima temperato-caldo, nonostante ci siano notevoli differenze tra le diverse varietà che vengono prese in considerazione.

In primo luogo, è importante evidenziare come devono essere effettuate delle lavorazioni nel corso della stagione autunnale, pari a circa 15-20 centimetri e, solamente a livello superficiale, nel corso della stagione primaverile.
Inoltre, ci sono anche possibilità di effettuare l’inerbimento totale all’interno di tutti quegli ambienti caratterizzati da un elevato livello di umidità.

La forma di allevamento su cui si punta maggiormente è quella della palmetta irregolare: infatti, il sistema della piramide è ormai caduto in desuetudine, dal momento che può comportare diversi rischi e complicazioni alla raccolta.

L’irrigazione è una tecnica che viene praticamente solamente in un numero circoscritto di casi, dal momento che la pianta del kaki viene allevata all’interno di aree marginali, anche se va sottolineato come l’irrigazione di questa pianta da frutto è in grado di migliorare notevolmente la pezzatura dei frutti e le condizioni della pianta stessa nel corso di periodi di siccità.
Per quanto riguarda la concimazione all’interno del kaki la componente più rilevante è rappresentata dall’N, che deve essere somministrato nel corso della stagione primaverile e in quella autunnale (200 unità ad ettometro), mentre le componenti corrispondenti fosforo e potassio vengono rilasciate nel corso della stagione primaverile.

Sempre per quanto concerne la concimazione, è sufficiente

Per quanto riguarda la potatura di questa pianta da frutto, è necessario sottolineare come sia sufficiente mantenere un carico sufficiente per garantire la produzione (allo stesso modo di quanto accade, quindi, con la vite), tenendo in considerazione il fatto che il kaki produce i frutti sui rami dell’anno.

Nella maggior parte dei casi, il kaki è una pianta da frutto che utilizza il franco come portainnesto principale, anche se è importante evidenziare come vengano spesso sfruttate anche altre varietà , come ad esempio il diospyros lotus, che permette di garantire alle piante un buon livello di resistenza nei confronti delle rigide temperature e,inoltre, offre anche una sensibilità minore nei confronti del cancro radicale.
Forme di allevamento
La principale forma di allevamento del kaki è, senza ombra di dubbio, quella a pieno vento.

Il kaki è un albero che, nella maggior parte dei casi, è a pieno vento (in poche parole, ha una crescita naturale). Infatti, c’è la possibilità di realizzare la chioma a partire da un fusto medio pari a circa 120 centimetri, mentre l’alternativa è rappresentata da una chioma ad alto fusto a circa 180-200 centimetri.

Si parte da un pollone di un anno che è stato appena piantato: tutto ciò che si dovrà è eseguire un taglio all’altezza voluta e, nel corso dell’anno successivo, si dovranno mantenere almeno tre rami che dovranno poi essere accorciati di circa 20-25 centimetri dall’origine.

Accorciando i rami che verranno a formarsi da questi ultimi tagliati, si potrà rendere più robusto il tronco e i rami che si svilupperanno negli anni a venire basteranno per andare a formare la chioma definitiva.

Poi saranno necessari solamente degli interventi per diradare la chioma e per rimuovere i rami insecchiti o che hanno subito dei danni.
Raccolta
Il kaki è una pianta da frutto che è in grado di adattarsi molto facilmente ad ogni terreno, che non ha necessità di grandi attenzioni e che, allo stesso tempo, si dimostra estremamente facile da coltivare.

Senza ombra di dubbio, una delle attività che possono nascondere le maggiori insidie: infatti, non deve essere svolta in un periodo troppo anticipato rispetto al normale, dal momento che i frutti non giunti a maturazione si caratterizzano per avere una qualità davvero molto bassa e possono incontrare spesso il rischio di alterazioni.

Anche nel caso in cui la raccolta venga effettuata con delle tempistiche eccessivamente tardive, è importante sottolineare come si possa andare incontro a diversi pericoli: in particolar modo, nel momento in cui i frutti di questa pianta cominciano ad avere una consistenza sempre più molle, allora sale di conseguenza il rischio che si verifichino delle infezioni fungine.

Il frutto del Kaki si caratterizza per essere davvero molto delicato, dal momento che si deve provvedere a staccare cercando sempre di mantenere il calice e poi provvedere a collocarlo all’interno di cassette ad uno strato.

I frutti delle varietà astringenti della pianta di kaki, come ad esempio il kaki-tipo, non possono essere consumati nell’immediato dopo aver effettuato le operazioni di raccolta, dal momento che si caratterizzano per avere una polpa decisamente fibrosa e notevolmente astringente.

Sarà necessario attendere che trascorra un determinato periodo di post-maturazione, che viene definito con il termine di ammezzimento, dal momento che il frutto assume una consistenza decisamente più morbida e la polpa diventa gelatinosa e notevolmente dolce.

Uno dei vari sistemi che vengono impiegati spesso per rendere più veloce la perdita dell’astringenza è quella di collocare vicino ai frutti del kaki qualche mela, in modo tale da stimolare la produzione di etilene: si tratta di una sostanza gassosa che va a stimolare la maturazione del frutto e a velocizzarla.
Frutti
La fruttificazione del kaki si può svolgere mediante il normale sistema, ovvero quello che prevede la fecondazione dell’ovario e la formazione dei semi, oppure si può verificare anche senza la fecondazione, realizzando dei frutti che non avranno semi (che vengono chiamati anche con il termine di partenocarpici).

La presenza dei semi può andare a condizionare notevolmente il contenuto dei tannini all’interno dei frutti: stiamo parlando di quelle sostanze grazie alle quali la polpa diventa astringente e commestibile solamente dopo essere passata attraverso la fase dell’ammezzimento (ovvero quel particolare periodo che segue la raccolta dei frutti).

La pianta che può vantare la maggior diffusione a livello mondiale, ovvero il kaki-tipo, si caratterizza per avere unicamente dei fiori femminili.

In questa occasione, è necessario sottolineare come la fruttificazione si verifichi senza che ci sia la fecondazione dell’ovario e, per tale ragione, vengono a formarsi dei frutti che non hanno al loro interno alcun seme che, nel momento in cui viene effettuata la raccolta, sono astringenti.

Nel caso in cui venisse impollinata una diversa cultivar, come ad esempio il kaki Vainiglia, che può contare sulla presenza sia di fiori maschili che di fiori femminili, allora si possono creare dei frutti con semi che sono subito eduli nel momento in cui vengono raccolti.
Altre cultivar che si caratterizzano per essere sempre eduli nel momento in cui vengono raccolte, tralasciando l’eventuale presenza o meno di semi, sono rappresentate, ad esempio, dal kaki Hana Fuyu.

Malattie

Il kaki è una pianta da frutto che non risulta particolarmente oggetto di attacchi da parte di parassiti animali, anche se ci potrebbe essere la possibilità che avvengano degli attacchi da parte di cocciniglie, che spesso possono arrivare sulla pianta in elevate quantità e possono provocare un complessivo indebolimento della pianta.

Per quanto concerne le malattie che hanno natura fungina, è importante evidenziare come ci sia la possibilità che si diffonda la muffa grigia, che può apportare seri pericoli, in modo particolare, ai frutti di questa pianta.

Invece, l’oidio può provocare numerosi problemi ai rami ed alle foglie, in modo particolare nel caso in cui ci sia spesso un clima con un alto livello di umidità.

Ad ogni modo, sono pochi gli interventi che combattono le avversità, dal momento che i pericoli maggiori provengono dal tumore radicale e da quello batterico, mentre tra gli insetti, quelli maggiormente in grado di impensierire la pianta sono la Sesia e la mosca della frutta.
Kaki: Varietà
kakiEsistono due varietà differenti di kaki: il kaki comune e quello vaniglia ( chiamato anche con il nome di cachi mela). Per quanto riguarda il cachi comune il colore è piuttosto giallo-arancio e la conformazione è simile a quella di un pomodoro anche per via delle dimensioni. Il periodo migliore per la raccolta del cachi comune è novembre quando ancora non è maturo. Viene infatti lasciato maturare in seguito fino a quando raggiunge una consistenza più morbida e il succo diventerà più dolce. L’altra varietà di cachi, il cachi mela o cachi vaniglia invece, è piuttosto simile al cachi comune ma a differenza del primo, non viene raccolto quando è ancora acerbo. Può essere raccolto e mangiato nel momento stesso della raccolta, anche se il sapore appare meno dolce del cachi comune.
Le annaffiature necessarie
La pianta di Cachi non ha particolari esigenze per quanto concerne la necessità, o meno, di essere annaffiata. Si tratta, infatti, di una pianta relativamente resistente alle condizioni del clima più avverse, tra cui la principale è di sicuro la siccità. Le annaffiature per la pianta di Cachi, detta anche “Diaspero” o semplicemente “Kaki”, sono indispensabili soltanto nelle zone sottoposte ad una maggiore siccità, ovvero quelle in cui non esiste, in linea di massima, una stagione piovosa vera e propria. Solo in questa maniera si riesce a rendere il frutto migliore, dato che nonostante tutto è importante che il Cachi disponga delle giuste quantità di acqua. Nelle regioni del mondo dove, invece, non esistono problemi relativi alla siccità e dove le piogge sono più frequenti, è possibile tralasciare le irrigazioni dato che la pianta trae dalla pioggia l’acqua che le è necessaria.

La coltivazione e la cura
La coltivazione della pianta di Cachi è tutt’altro che complicata. La messa a dimora deve avvenire nella stagione autunnale e non esistono esigenze particolari per quanto concerne il terreno. L’unico aspetto riguarda il drenaggio, che deve essere buono. Quando si pongono a dimora le piante, esse si devono collocare ad una distanza minima di almeno 6 metri. Da adulti, infatti, questi alberi hanno bisogno di moltissimo spazio e di una perfetta aerazione. Periodicamente è necessario procedere con la potatura dell’albero, eliminando semplicemente i rami secchi o quelli rovinati. Qualora ci fossero dei rami eccessivamente appesantiti da troppi fiori è necessario alleggerirli eliminandone alcuni. La raccolta dei Cachi avviene in autunno inoltrato, generalmente nei mesi compresi tra ottobre e novembre.
Tra i pochissimi interventi manutentivi richiesti dalla pianta di Cachi si colloca quello della concimazione. E’ realmente importante, infatti, integrare correttamente le sostanze nutritive presenti nel terreno, in modo da garantire uno sviluppo ottimale dell’albero ed anche un raccolto di migliore qualità. Le concimazioni della pianta di Cachi devono avvenire periodicamente nella stagione primaverile ed in quella autunnale. Tolto il malaugurato caso di problemi e parassiti, infatti, le concimazioni estive ed invernali vanno per lo più evitate. L’elemento fondamentale che deve costituire il fertilizzante ideale per il Cachi è indubbiamente l’azoto. Nella stagione primaverile, a questo, si devono aggiungere anche gli altri due macroelementi indispensabili per la maggioranza delle piante, ovvero fosforo e potassio, per rinforzare la pianta e i frutti.

Coltivare pianta di cachi: L’esposizione e le malattie

La pianta di Cachi non ha particolari esigenze per quanto concerne l’aspetto climatico. L’unico accorgimento di cui occorre sicuramente ricordare è che il Cachi predilige le zone con un clima più caldo. Il freddo è abbastanza ben tollerato, mentre le gelate sono assolutamente da evitare, specialmente nel momento in cui l’albero è in fiore, ovvero più o meno ad aprile. I venti caratterizzati da forti raffiche sono da evitare, se possibile, in quanto i rami già appesantiti dalla presenza dei frutti (il cui peso non è indifferente) corrono maggiormente il rischio di spezzarsi se sollecitati. Uno dei parassiti che maggiormente infestano la pianta del Cachi è la cocciniglia, sia quella denominata “mezzo grano di pepe” sia quella farinosa. In questo caso occorre agire chimicamente con appositi prodotti. In caso di marciume radicale, invece, ridurre le annaffiature.

 

 

 

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Rubus idaeus L. Lampone

Il lampone giallo è una pianta da frutto coltivata nei frutteti, negli orti domestici e nei giardini per la produzione commerciale dei frutti succosi e dolci e come pianta ornamentale anche in vaso.
Caratteristiche generali del Lampone giallo – Rubus idaeus
Il lampone giallo come le altre varietà più conosciute appartiene al genere Rubus idaeus, della famiglia delle Rosaceae. E’ un arbusto originario dell’Asia minore e dell’Europa diffuso allo stato spontaneo nei terreni sciolti fino a 1200 metri di altitudine. In Italia viene coltivato anche nelle regioni caratterizzate da inverni rigidi in quanto mostra una maggiore resistenza alle basse temperature.
Il lampone giallo è una pianta cespugliosa formata da numerosi rami che tendono ad estendersi in larghezza ed assumere un portamento pendente sotto il peso dei frutti maturi.

La pianta è provvista di una radice principale profonda e rizomatosa che con lo sviluppo emette numerose radici avventizie o secondarie di tipo fascicolato che si estendono in prevalentemente in superficie a pochi cm di profondità.
La parte aerea del lampone giallo è formata da steli rigidi legnosi nella parte basale e semilegnosi o erbacei in quella apicale.

La corteccia che ricopre i rami è vede-rossastra negli esemplari giovani tendenzialmente marrone in quelli di età più avanzata. Oltre ai rami principali la radice genera alla base pianta anche polloni lunghi sino a 2 m, ricoperti da una sottile cuticola verde-chiaro.
Le foglie sono caduche, costituite da 3-5 foglioline ovali, di colore verde scuro e con margine seghettato. La lamina fogliare è leggermente verrucosa per la presenza di varie nervature.

I fiori sono riuniti in racemi portati da germogli fioriferi che sorgono, nelle varietà unifere, apicalmente e lateralmente ai polloni dell’anno precedente, oppure anche ai polloni dell’anno nelle cultivar bifere. I fiori sono pentameri cioè composti da 5 petali e vengono impollinati dalle api.
I frutti del lampone giallo sono particolari drupe composte subsferiche o coniche, detti sorosi, di colore giallo carico con sfumature arancioni. Sono sorretti attaccati ai rami mediante lunghi peduncoli. Quando vengono raccolti i loro ricettacoli, a differenza delle more, restano attaccati ai rami e quindi i frutti presentano cavità abbastanza pronunciate. I lamponi gialli hanno un sapore dolcissimo, sono gradevolmente profumati e maturano da luglio fino a settembre inoltrato.

I semi sono racchiusi nelle drupe carnose e sono piccolissimi.
Fioritura
Il lampone giallo fiorisce in tarda primavera, da maggio a giugno.
Coltivazione del Lampone giallo
Esposizione
Anche questa varietà di lampone richiede una costante esposizione alla luce e ben riparata dai venti. Nelle zone con clima estivo molto caldo la pianta va piantata preferibilmente con le radici all’ombra. Non teme il freddo, resiste fino ai -20° C ma soffre le gelate tardive primaverili. Non cresce bene nemmeno in zone molto calde e umide.

Terreno
Per quanto riguarda il terreno, questo deve essere sciolto, ricco di sabbia e povero di argilla, ricco di sostanza organica, tendenzialmente acido con pH 6,5. Nei terreni troppo umidi e soprattutto con ristagni idrici la pianta stenta a sopravvivere.
Annaffiature
E’ un arbusto che ama il terreno leggermente e costantemente umido soprattutto in estate stagione in cui avviene l’ingrossamento dei frutti pertanto le annaffiature devono essere regolari e vanno praticate possibilmente a goccia evitando assolutamente di bagnare le foglie e i frutti in fase di maturazione. In autunno le irrigazioni vanno ridotte a una sola volta a settimana soprattutto se il clima è siccitoso.
Concimazione
Per lo sviluppo della pianta e soprattutto per buone rese di frutti la concimazione è di fondamentale importanza. Il miglior concime è il letame maturo, che va distribuito ai piedi della pianta in autunno. A fine autunno è bene apportare al suolo anche un concime ternario a lenta cessione, capace di reintegrare i macroelementi entro la primavera, di modo che le piante possano contare su tutti i nutrienti di cui hanno bisogno al loro risveglio. In primavera invece va fornito un concime contenente azoto.
Lampone giallo: coltivazione in vaso
Anche questa varietà come il lampone rosso molto più conosciuto, viene coltivato in vaso come pianta ornamentale e da frutto. Il vaso adatto allo sviluppo armonioso della radice e della parte aerea deve avere un diametro di circa 40 cm.

Per coltivare 2 o più piante di lamponi invece occorrerà una fioriera lunga al meno 1,2 metri considerando che vanno lasciati almeno 40 -45 cm di spazio tra una pianta e l’altra.

Dall’impianto in poi si irrigare la pianta in maniera corretta e costante, soprattutto durante l’estate.

Rinvaso
Il lampone coltivato in vaso va piantato in un nuovo contenitore quando le radici hanno occupato tutto lo spazio disponibile e fuoriescono dai fori di drenaggio del vaso. Va utilizzato nuovo terriccio fresco e sempre a pH acido.
Moltiplicazione del Lampone giallo
Nuove piante di Lampone giallo, come altre della stessa specie, vengono riprodotte generalmente per via agamica o vegetativa mediante la divisione dei cespi.

Si asportano i polloni basali o radicali e si interrano al momento stesso in vasi singoli contenenti un miscuglio di torba e sabbia in parti uguali. I giovani polloni basali a radicazione avvenuta vanno poi messi a dimora definitiva.
Impianto o messa a dimora
La messa a dimora della pianta, come già detto, può avvenire in piena terra o in vaso, in autunno nelle regioni con clima invernale mite e in primavera in quelle con climi particolarmente rigidi. Le piantine in vaso vanno, invece, messe a dimora entro la metà di maggio. In entrambi i casi le piante di Lampone giallo vanno messe nelle buche profonde 20 cm, con il pane di terra che avvolge le radici e interrate fino all’altezza del colletto.
La produzione dei lamponi inizia solo dopo 2-3 dall’impianto. Una volta raggiunta tale età, la produzione rimane costante per poi diminuire vertiginosamente dopo 18-20 anni e, per tale motivo le piante vanno ciclicamente rinnovate sia che si tratti di varietà unifere ( fioriscono e producono frutta una sola volta all’anno) sia rifiorenti (fioriscono e fruttificano più volte all’anno).
Raccolta dei lamponi gialli
La raccolta dei lamponi gialli è scalare e va fatta ogni giorno dal momento in cui iniziano a maturare perchè i frutti raccolti in ritardo tendono ad ammuffire e non sono più commestibili. Si raccolgono manualmente, i frutti sodi e maturi al punto giusto durante le ore fresche della giornata.
Conservazione
I lamponi freschi si conservano per circa 2 giorni se raccolti privi di ricettacoli, per circa una settimana se staccati dalla pianta come le more. I frutti ammuffiti o danneggiati, vanno ovviamente scartati.
Potatura del Lampone giallo
Le piante di lampone giallo si potano dopo la fioritura. Utilizzando cesoie ban affilate e disinfettate si tagliano i rami fruttati a livello del suolo. In inverno si recidono tutti gli altri a livello per favorire l’emissione di quelli nuovi e per consentire l’accrescimento in larghezza.

Potatura del Lampone giallo rifiorente
Se si coltiva una varietà di Lampone giallo rifiorente è necessario effettuare tre interventi di potatura in tre diversi periodi:
in primavera, nel mese di aprile si effettua la potatura primaverile, eliminano tutti i polloni che crescono ai piedi della pianta, lasciandone vegetare solo 3 o 4, i più sani e vigorosi.
in estate si effettua la potatura estiva accorciando i rami più lunghi e asportando tutti i polloni che si sviluppano lontano dalla pianta madre.
in inverno, si pratica la potatura invernale, tagliando tutti i rami di due anni alla base del terreno.
Parassiti e malattie del Lampone giallo
le piante di lampone giallo viene attaccato dai comuni parassiti animali soprattutto dagli afidi e a seguire da cicaline, scarabei dei lamponi e Ragnetto rosso, nemici numeri uno delle foglie di cui sono molto ghiotti.
Tra le malattie fungine o crittogame soffrono il mal bianco o oidio, il marciume delle radici e la muffa grigia. Sono anche sensibili ad alcune infezioni batteriche e malattie virali come il mosaico delle foglie.

Cure e trattamenti
Le piante di lampone vanno protette dal freddo con una buona rincalzatura. Una o più sarchiature, fino a 10 cm di profondità, sono fondamentali sia per eliminare le erbe infestanti che crescono ai loto piedi sia per arieggiare lo strato superficiale del terreno.

Le malattie e gli attacchi parassitari del lampone si possono prevenire solo attuando metodi adeguati di coltivazione e scegliendo varietà più resistenti e con trattamenti fitosanitari mirati ammessi dall’agricoltura biologica.
In ambienti asciutti e nelle coltivazioni ad uso personale di solito non sono necessari trattamenti anticrittogamici, tuttavia sono consigliati due interventi: il primo in autunno ed il secondo alla ripresa vegetativa con Sali di rame e zolfo bagnabile per prevenire le principali avversità. Il Ragnetto rosso e l’acaro giallo si possono per esempio si possono anche sconfiggere con prodotti specifici a base di piretrine.
Varietà di Lampone giallo
Esistono specie o varietà diverse di Lampone giallo che si distinguono per dimensione e forma dei dei frutti, leggermente conica o allungata, per il sapore più o meno aromatico e dolce, per il periodo della fioritura e dalla maturazione dei frutti.
Lampone giallo Fallgold
E’ una varietà di lampone giallo rifiorente e molto vigorosa che produce frutti succosi di consistenza morbida, con un gusto mielato estremamente dolce con note aromatiche molto intense. E’ una varietà precoce, infatti la maturazione dei frutti inizia da metà maggio e continua fino verso la metà di ottobre. I lamponi gialli prodotti da questa pianta sono ottimi per il consumo fresco o per fare marmellate, gelatine e succhi.

Lampone giallo Alpengold
E’ una varietà di lampone giallo rifiorente ed ibrida, con tralci senza spine e grandi frutti conici di colore giallo-arancio con un buon sapore dolce.
Lampone giallo Golden Bliss
È un arbusto perenne di altezza variabile tra i 1-3 metri. L’apparato radicale è esteso, con radici sottili e fibrose. La parte parte aerea è costituita da rami biennali, più o meno eretti, che nell’anno di formazione vengono chiamati polloni (tralci fruttiferi in quello successivo). Produce lamponi gialli dal profumo e dal sapore leggermente più delicati.

Usi in cucina dei lamponi gialli
I lamponi gialli anche grazie al loro dolcissimo sapore, sono ottimi per ottenere confetture e marmellate, crostate e gelatine; ma possono essere consumati freschi al naturale nelle macedonie di frutta, per prepare gelati cremosi, su yogurt, panna montata e come ripieno di crepes dolci.
Proprietà e benefici dei lamponi gialli
I lamponi gialli sono composti per l’80 % da acqua, 10 % carboidrati, 5 % da fibre in minima parte da proteine, zuccheri e grassi e in più sono ricchi di sali minerali, di vitamine, soprattutto, di vitamina C e di agenti antiossidanti capaci di prevenire numerose malattie.

Ha tra i suoi pregi delle ottime proprietà curative:

il suo succo si utilizza per curare le infiammazioni delle vie urinarie;
il decotto in caso di colite;
lo sciroppo, con l’aggiunta di zuccheri, diventa un ottimo dissetante con proprietà diuretiche e rinfrescanti;
l’infuso, preparato con le foglie viene consigliato per i reumatismi, per i gargarismi; per calmare il bruciore della gola infiammata;
per aumentare le difese immunitarie ed è anche ottimo per combattere la diarrea.
Il consumo dei lamponi è sconsigliato a coloro che soffrono di gotta, in considerazione della sua presenza di acido ossalico.
Curiosità
I lamponi gialli in Val D’Aosta vengono utilizzati per la preparazione di un aceto aromatico ideale per condire insalate miste.

I lamponi vengono chiamati anche framboise o frutti d’oro.

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Vaccinium Mirtillo

Il mirtillo nero, Vaccinium myrtillus, è un piccolo arbusto appartenente alla famiglia delle Ericacee, coltivato a scopo ornamentale in vaso e nei giardini e anche per la commercializzazione delle sue bacche: i mirtilli.
Caratteristiche e generalità del mirtillo
Il Mirtillo nero è una pianta rustica che cresce spontanea nei suoli acidi delle zone subalpine e montane dell’Europa , Italia compresa.

Il mirtillo è una piccola pianta a sviluppo arbustivo rampicante o tappezzante di altezza media di circa 50 cm, con steli ramificati ricoperti da fogliame sempreverde, persistente e decorativo.

Le foglie sono ovali o lanceolate, con lamina intera e apice appuntito. Sono di colore verde chiaro e in autunno assumono una particolare colorazione giallo – rossastra.
I fiori bianco – rosati, compaiono alle ascelle delle foglie, riuniti in infiorescenze campanulate che sbocciano in primavera inoltrata.
I frutti sono piccole bacche sferiche che a completa maturazione presentano la buccia di colore variabile dal rosso al blu-violaceo al nero a secondo della specie. La polpa succosa ha un sapore dolce- acidulo.

I semi racchiusi nelle bacche

Fioritura
Il mirtillo nero fiorisce in tarda primavera.
Coltivazione dei mirtilli
Esposizione
Nelle zone calde ed assolate il mirtillo preferisce i luoghi semiombrosi mentre nelle zone climatiche più fredde ama i luoghi soleggiati e ben riparati dai venti.

Terreno
Il mirtillo predilige i terreni acidi, freschi, sciolti, ricchi di sostanza organica e ben drenati. Il terreno ottimale di coltivazione deve avere un pH acido compreso tra 4,5 e 5,5.

Annaffiature
regolari annaffiature nel periodo della fioritura e della fruttificazione.

Concimazione
concimazioni organiche in primavera alternate a periodiche concimazioni azotate.

Mirtillo: coltivazione in vaso
Alcune varietà di Mirtillo possono essere coltivata anche in vaso a seconda delle condizioni climatiche: la Duke ad esempio è adatta per le zone con inverni miti, la Bluegold invece per quelle caratterizzate da climi freddi. Il vaso, preferibilmente in terracotta,
largo e profondo 50 cm, va riempito con un terreno piuttosto acido, sciolto e ricco di sostanza organica, composto da 2 parti circa di terriccio acido e 1 parte circa di torba bionda. Una volta interrata la pianta, verso la fine dell’autunno o in primavera, rispettivamente nelle regioni del Sud e in quelle del Nord, si annaffia con acqua non calcarea, evitando i ristagni idrici. Una volta l’anno si somministra un fertilizzante specifico per piante acidofile e per mantenere costantemente acido il pH del terreno.
Rinvaso
Si effettua quando le piantine di mirtillo rosso avranno raggiunto una media dimensione. Si utilizza nuovo contenitore, possibilmente più ampio, così da fare in modo che le radici possano crescere in larghezza e in profondità. Anche il terreno va sostituito con uno sempre a pH acido. Sulla superficie libera del terreno si potranno mettere dei pezzi di corteccia di abete o di pino per mantenere acido ed umido il terreno.
Moltiplicazione del mirtillo
La pianta si riproduce per seme ma molto più facilmente per propagazione agamica mediante talea.

Moltiplicazione per seme
La semina, si effettua tra marzo e aprile: si mettono i semi in un semenzaio contenente un compost specifico; si coprono con un foglio di pellicola per mantenere costante la temperatura e l’umidità.
Quando le piantine saranno abbastanza cresciute vanno trasferite in singoli vasi fino al momento della messa a dimora definitiva. La semina è poco praticata in quanto i risultati non sono sempre soddisfacenti.

Propagazione per talea
Questa propagazione vegetativa è preferita alla semina in quanto facile da eseguire e soprattutto perchè assicura piante identiche a quella originale.

Per prima cosa si preparano contenitori riempiti con terreno umifero a pH acido e ricco di nutrienti, composto da torba acida e sabbia in parti uguali.
Poi, utilizzando delle cesoie ben affilate e disinfettate, tra luglio-agosto, si prelevano porzioni apicali di rami giovani lunghe 15 cm,
Si eliminano le prime coppie di foglie.
Si trattano le estremità recise con un po’ di polvere di ormone radicante al fine di favorire la produzione delle radici.
Le talee vanno inserite nel terreno, non troppo in profondità e ben distanziate.
Dopo l’interramento delle talee, si compatta ben bene il terreno e si annaffia abbondantemente. Le annaffiature vanno fatte a giorni alterni fino a quando le talee emettono nuovi germogli.
A radicazione avvenuta si lasciano irrobustire le nuove piantine di mirtillo rosso.
Le piante così riprodotte andranno tenute in ambiente protetto e messe a dimora dopo un anno, in vaso o direttamente in piena terra.
Impianto dei mirtilli
La messa a dimora delle piante di mirtilli va fatta in primavera. Le piantine dovranno essere posizionate alla distanza di almeno un metro l’una dall’altra in buche larghe e profonde circa 50 cm. Vanno coperte con il terriccio fino all’altezza del colletto e annaffiate abbondantemente per favorire l’attecchimento delle radici nella nuova dimora. Le nuove piantine in genere fruttificano dopo 2 – 3 anni.

Raccolta dei mirtilli
La raccolta dei mirtilli avviene nel periodo estate – autunno quando i frutti hanno raggiunto la completa maturazione.

Potatura
Una volta che i cespugli di mirtillo sono cresciuti vigorosi vanno potati. Si effettua una potatura di formazione e una di fruttificazione dopo il primo anno dell’impianto.

La prima potatura va fatta in primavera per dare armonia di forma alla chioma. Si accorciano di poco i rami più vigorosi e si recidono alla base quelli vecchi o danneggiati. Si eliminano anche i rami con infiorescenze o bacche ormai avvizzite.

La seconda potatura, quella di ringiovanimento, invece va effettuata in inverno. Generalmente si lasciano, per ogni pianta, 3 o 4 rami produttivi e qualche nuovo pollone.
Parassiti e malattie del Mirtillo
E’ una pianta rustica decorativa per tutto l’arco dell’anno ma sensibile agli attacchi degli afidi piccoli parassiti che colonizzano fiori e foglie. Le bacche possono essere danneggiate dalle larve delle falene o altre specie di insetti. Tra le malattie fungine soffre il marciume delle radici, del colletto e la muffa grigia. Il fogliame potrebbe essere soggetto a clorosi in caso di carenza di ferro.

Cure e trattamenti
Le piante di mirtilli vanno periodicamente liberate dalle erbe infestanti. Una leggera pacciamatura alla base dei cespugli con corteccia di faggio o altro materiale pacciamante proteggerà le piante dai parassiti e contribuirà a mantenere il terreno sempre umido.
Per preservare i frutti da animali e diverse specie di uccelli ghiotti delle bacche mature, si consiglia l’uso di reti protettive.

I trattamenti con specifici insetticidi preferibilmente biologici vanno praticati solo se necessari per evitare gravi danni alle bacche. Ogni anno è opportuno effettuare delle correzioni del pH del terreno.

Varietà di Mirtillo
Esistono diverse specie di mirtillo alcune anche decidue.

Mirtillo Vaccinium Vitis idaea
Mirtillo Vaccinium Vitis idaea
Il Mirtillo rosso, un arbusto sempreverde con fiori sono bianchi o rosa. Produce bacche rosse, dal sapore acido. Si coltiva anche in vaso come pianta ornamentale da frutto.
Mirtillo blu Vaccinium uliginosum
È un arbusto a foglia caduca. Produce fiori di colore bianco­-rosso e bacche di color nero-bluastre utilizzate per preparare liquori e sciroppi.
Mirtillo gigante americano Vaccinium Corymbosum
È una pianta a foglia caduca originaria spontanea del Nord America. I fiori sono di color bianco-­rosa e i frutti, riuniti in grappoli, sono bacche profumate di colore nero­azzurro. Questa varietà è molto resistente al freddo, può tollerare fino a ­30°C.

Mirtillo Vaccinium oxycoccus
L’ossicocco o mirtillo di palude è una pianta sempreverde a portamento strisciante che produce bacche rosse. Cresce spontaneo in Europa e in America del Nord. ­

Mirtillo Vaccinium angustifolium
Una specie a basso fusto originaria del Nord America. America del Nord. È molto piccola, non supera i 50 cm di altezza e le sue bacche sono blu, dal sapore dolce e profumato.
Usi dei mirtilli
I frutti vengono consumati freschi, sotto forma di sciroppi, crostate e gelati.

Ottime sono le marmellate, le gelatine e i liquori.

I mirtilli per l’alto contenuto di mirtillina, flavonoidi e vitamine vengono anche utilizzati sia in erboristeria sia nell’industria farmaceutica per la preparazione di composti anticellulite e la cura delle gambe gonfie.
Curiosità
Il succo delle bacche veniva utilizzata come colorante dei tessuti.

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Juglans Noce

Il noce, Juglans regia, è un albero perenne coltivato sia per i frutti (la noce) sia per il suo legno pregiato usato nella costruzione di mobili.
Caratteristiche del noce
Il noce è un albero dal portamento vigoroso che raggiunge altezze anche superiori ai 20 metri.

Il tronco robusto e solido è ricoperto da una corteccia grigiastra solcata da profonde fessurazioni.

La chioma larga ed espansa è costituita da numerosi rami con foglie grandi imparipennate di un bel colore verde.

Sui rami del noce, nel periodo aprile – maggio, spuntano i fiori maschili e fiori femminili.
I fiorimaschili sono riuniti in amenti pendenti di colore verde che successivamente diventano nerastri.
I fiori femminili invece spuntano dopo quelli maschili agli apici dei rami riuniti in piccoli gruppi.

I frutti, le noci, sono drupe ovoidali protette all’esterno dal mallo, un involucro duro di colore verde che diventa col passare del tempo scuro molle e grinzoso che spaccandosi lascia cadere le noci mature.
Coltivazione del noce
Clima: il noce ama il clima temperato con esposizioni soleggiate.

Terreno: predilige terreni profondi, calcarei, ricchi e ben drenati.

Irrigazioni: il noce è un albero che si acconta delle piogge.

Concimazione: ogni 2 anni è bene somministrare del letame ben maturo o del concime organico complesso a base di macroelementi ( azoto, fosforo e potassio) e microelementi.
Moltiplicazione
La moltiplicazione del noce avviene per seme o per innesto.
Potatura del Noce
Il noce è una pianta che va potata in giovane età per conferire chioma e controllare l’orientamento della crescita dei rami e della chioma.

In età adulta diventa una pianta molto problematica da potare, per la sua sensibilità e delicatezza ai tagli.

Ogni anno sfoltire i rami per favorire la circolazione dell’aria e il soleggiamento; accorciare i rami più lunghi e disordinati per conferire armonia alla chioma.

Evitare tagli drastici in quanto mal tollerati e ricorrere a prodotti cicatrizzanti per bloccare il “pianto” della linfa.
Il noce è uno degli arbusti più difficili da potare e spesso è conveniente lasciarlo “in pace”.

Raccolta delle noci

La raccolta delle noci si effettua in autunno nel periodo settembre – ottobre mediante la bacchiatura una tecnica che si esegue con speciali pertiche, consistente nello scuotere (batacchiare) la pianta, per fare cadere i frutti dalla pianta.
Malattie e Parassiti
Tra le malattie il noce teme il marciume radicale e del colletto che si combatte di solito con prodotti rameosi; l’Antracnosi che si manifesta con la caduta precoce dei frutti e e delle foglie.

Tra i parassiti animali i frutti ossia le noci temono l’attacco della Cydia Polmonella un piccolo verme che si nutre dei gherigli generando una sostanza polverosa ben visibile sul guscio e all’interno.
Conservazione delle noci
Le noci per essere conservate a lungo (dai 2 ai 12 mesi) vanno fatte essiccare all’aperto in luoghi asciutti, ben ventilati e poi conservati in sacchi di tela o di carta in luoghi bui e curate.
Varietà
Tra le tante varietà di noci ricordiamo:

il noce di Sorrento, la varietà più diffusa e famosa che produce noci frutti di forma ovale con guscio allungato riconoscibile per il caratteristico “pizzo” leggermente appuntito;
il Franquette, di origine francese, con frutti ovoidali grandi e di ottima qualità.
Usi
Del noce si utilizza tutto, dalle radici ai frutti.

Le foglie raccolte d’estate vanno essiccate in luogo asciutti e semiombrosi;

Il mallo raccolto a giugno viene usato per la preparazione del nocino;

I frutti, le noci, vengono consumate fresche o essiccate e per la preparazione di salse.
Proprietà delle noci
La noce, il frutto della pianta, è un alimento molto calorico (650 Calorie per 100 g), ma possiede moltissime proprietà benefiche.

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Corylus avellana L. Nocciolo

Il nocciolo è una albero da frutto coltivato anche nell’orto familiare e nei giardini di campagna come cespuglio isolato o a siepe informale.
Caratteristiche del Nocciolo – Corylus avellana
Il nocciolo, nome scientifico Corylus avellana L., è un albero da frutto della famiglia delle Betulaceae originario dell’Asia Minore (Mesopotamia) diffuso in molti paesi Europei. In Italia lo si trova dalla pianura fino a circa 1300 metri di altitudine nelle regioni del Nord come il Piemonte e in quelle centrali-meridionali come Lazio, Campania e anche in Sicilia.
Questa pianta del genere Corylus, è dotata di un robusto ma poco profondo apparato radicale di tipo fascicolato. La parte aerea, a portamento cespuglioso, è formata da fusti sottili alti 2 metri che in pieno sviluppo possono superare anche i 4 metri di altezza. La corteccia lenticolare e con varie fessure longitudinali è di colore marrone grigiastra.
Le foglie di colore verde-chiaro, hanno forma ovoidale, margini seghettati e sono più pelose nella nella pagina inferiore. Le foglie sono disposte sui rami in maniera alterna e sono sorrette da un un lungo picciolo.
Il nocciolo è una pianta monoica con fiori unisessuali maschili e femminili portati sulla stessa pianta.
Il fiore maschile detto amento è un’infiorescenza a grappolo pensile formata da numerosi stami ricchi di polline che compare sui rami nudi dell’albero alla fine dell’autunno e vi permane per tutto l’inverno. Gli amenti generalmente sono riuniti in gruppi di 2-4 nelle intersezioni ascellari delle foglie dell’anno precedente.
Il fiore femminile, racchiuso in una piccola gemma, nel periodo della fioritura, tra febbraio-marzo, emette un ciuffo di stimmi di colore rosso porpora destinato ad accogliere il polline del fiore maschile trasportato dal vento. L’impollinazione è pertanto anemofila.
Il frutto, diclesio o nucula, è una nocciola sferoidale avvolta da brattee verdi e protetta esternamente da un guscio verde chiaro, sottile che a maturazione diventa legnoso e assume il caratteristico colore marrone. In piena maturazione, di norma tra agosto-settembre, le brattee seccano e si aprono lasciando cadere al suolo le nocciole.
Coltivazione del Nocciolo
Esposizione: è una pianta cespugliosa che ama il luoghi esposti al sole anche se non disdegna quelli semiombrosi con la luce filtrata dai rami di altre piante. L’esemplare adulto non teme il vento e il freddo mentre quello giovane teme il caldo afoso e le gelate soprattutto se tardive.
Terreno: pur adattandosi a qualunque tipo di terreno predilige quello non calcareo a medio impasto, a pH neutro, mediamente ricco di sostanza organica e soprattutto ben drenato. Nel terreno agrario con ristagni idrici l’apparato radicale tende a marcire mentre se troppo calcareo le foglie soffrono la clorosi ferrica.
Annaffiature: il nocciolo è una pianta che ama il terreno costantemente umido quindi va irrigata costantemente e frequentemente per evitare uno squilibrio vegetativo e la produzione dei frutti. In carenza di acqua il nocciolo produce infatti scarsi germogli e rade gemme di fiori femminili. Il nocciolo va innaffiato nei periodi di siccità e quanto le precipitazioni piovose scarseggiano: l’apparato radicale del nocciolo, non molto sviluppato in profondità, non riesce a procurarsi l’acqua necessaria da solo. La pianta giovane, nei primi due anni di vita, va irrigata due volte alla settimana con almeno 10 litri di acqua.
Concimazione: la concimazione è importante per ottenere buoni ed abbondanti raccolti ogni anno. Durante l’allevamento del nocciolo, di norma si effettuano tre tipologie di concimazioni in periodi diversi:concimazione primaverile di fondo quando si mettono a dimora le piante. I concimi adatti all’impianto sono nitrato di ammonio o nitrato di calcio se il pH del terreno dovesse avere un pH acido;
concimazione di allevamento a partire dal II° al V° anno di impianto;
concimazione di produzione dal VI° anno di impianto in poi mediante la somministrazione in autunno e in primavera di fertilizzanti organici misti composti da azoto (N), fosforo (P) e potassio (K) con titolo diverso: 4-8- 16 (autunnale) e a titolo 2-1-3 o l 12-6-18 (primavera). Oltre ai macroelementi, è indispensabile per lo sviluppo delle piante e l’allegagione, anche l’apporto di microelementi quali magnesio, boro e zinco.
Moltiplicazione del Nocciolo
La pianta di nocciolo si riproduce per seme ma oggi viene propagata mediante l’uso dei polloni, per margotta e per propaggine.
Moltiplicazione per seme
Questa tecnica viene poco praticata perchè molto lenta e le piante di nocciolo, a causa della ricombinazione genica, sono diverse da quella madre. Se si vuole comunque provare a riprodurre il nocciolo con questo metodo, prima di effettuare la semina per favorire la germinazione, i semi o nocciole (sgusciate) vanno ammollate per 2 giorni in acqua fredda. Le nocciole sane e prive di muffa si seminano in autunno e le piantine potranno essere trapiantate in piena terra solo dopo il secondo anno di vita.
Propagazione per asportazione dei polloni
E’ il metodo più diffuso e che assicura esemplari con le stesse caratteristiche della pianta originale.
Con attrezzi specifici ben affilati e disinfettati si asportano i polloni radicati che crescono alla base della pianta di nocciolo. consiste Il sistema più semplice e diffuso per la propagazione del nocciolo è l’uso di polloni provenienti da ceppaie certificate, in cui si abbia la sicurezza di ottenere esemplari dalle stesse caratteristiche della pianta madre.

Le piantine vanno allevate in vivaio per 1-2 anni prima di essere messe a dimora definitiva e nel frattempo vanno curate con attenzione e irrigate frequentemente facendo attenzione che il terreno sia costantemente umido ma non fradicio.
Propagazione per margotta
Un altro metodo di propagazione molto diffuso è la margotta di ceppaia. Si pota alla base del terreno una ceppaia di almeno tre anni di vita in modo da stimolare l’emissione di una grande quantità di polloni che nel mese di giugno vanno strozzati a livello del colletto con anello metallico e ricoperti poi con terriccio. La strozzatura stimola l’emissione di radici sopra la stessa e quando saranno abbastanza sviluppate, la piantina potrà essere staccata e messa a dimora direttamente.
Propagazione per propaggine
Un’ altra tecnica molto semplice e che assicura esemplari di nocciolo identici alla pianta madre. La propaggine, va fatta, come per la Vite vinifera, la vite americana, il Glicine ed altre piante rampicanti, nel curvare al livello del terreno un pollone dell’anno della pianta madre, scortecciarlo per circa 1 cm in quel punto,coprirlo con il terreno e fissarlo ad esso con uno o due ganci ad U. A radicazione avvenuta, il pollone va staccato dalla pianta e messo a dimora definitiva.
Impianto o messa a dimora del Nocciolo
La messa a dimora del nocciolo si effettua nel periodo autunno-inverno da novembre a marzo, periodo in cui la pianta non subisce traumi in quanto è a riposo vegetativo.
Per la piantumazione generalmente si utilizzano piante di 2 anni di età, a radice nuda, dotate di un apparato radicale sano e ben sviluppato. Il terreno destinato ad accogliere la pianta va lavorato almeno 2-3 mesi prima dell’impianto fino a circa 60 -80 cm di profondità per un esemplare alto più di 1,5 metri ed arricchito con una concimazione di fondo a base di letame maturo. La buca deve essere profonda 60 x 80 cm e la pianta di nocciolo va inserita in essa fino a pochi centimetri da colletto per evitare lo sviluppo di polloni basali che sottraggono energia e nutrienti indispensabili per la crescita e la fruttificazione. La produzione del nocciolo avviene al quinto o sesto anno dalla messa a dimora, è massima verso l’ottavo anno e dura stabilmente anche fino ai 30-40 anni. Da una pianta adulta si possono ottenere circa 5 kg di nocciole.
Potatura del Nocciolo
La potatura è necessaria sugli esemplari adulti per conferire loro un’armonia di forma e il giusto equilibrio fra attività vegetativa e produttiva, scongiurando così il fenomeno dell’alternanza. Si eliminano i rami secchi, i succhioni troppo vigorosi e per stimolare la produzione di nuova vegetazione si accorciano quelli dell’anno precedente di circa la metà. I tagli come sempre devono essere obliqui per favorire lo sgrondo dell’acqua piovana. Dopo la fioritura e prima della caduta degli amenti, si eliminano anche i rami sterili per evitare inutili dispendi di energia e favorire una fruttificazione abbondante. Gli esemplari giovanni vanno potati solo dopo il terzo anno sfoltendo i fusti del cespuglio ed eliminando alla base quelli in eccesso.
Per rinnovare completamente la vegetazione, ogni 10 anni, si può effettuare anche una potatura drastica della ceppaia (cippatura), tagliando alla base i rami e i polloni. Il periodo migliore per praticare la potatura sul nocciolo è quello invernale quando la pianta è a riposo vegetativo.
Raccolta delle nocciole
Le nocciole si raccolgono a metà agosto mese in cui sono mature e libere dalle brattee secche iniziano a cadere al suolo. Per non disperdere i frutti e per agevolare la raccolta si predispone sotto la chioma del nocciolo una rete in plastica come si fa normalmente per la raccolta delle olive.
Dopo la raccolta, si passa all’essiccazione delle nocciole. le nocciole devono essere essiccate all’aria su graticci su cui rigirarle spesso e dopo l’essiccazione vanno conservate in locali asciutti e a temperature di circa 15 °C, meglio se all’interno di materiale traspirante come sacchi di carta o di juta per essere consumate come frutta secca; in pasticceria e gelateria per la preparazione di dolci e gelati e note creme spalmabili come la nutella e il gustoso croccante di nocciole..
Parassiti e malattie del nocciolo
Il nocciolo pur essendo una pianta da frutto rustica abbastanza resistente alle avversità climatiche è sensibile ad alcune malattie fungine o crittogame come:
il marciume delle radici se il terreno di coltivazione è soggetto a ristagno idrico e la patologia si manifesta con imbrunimenti spugnosi alla base della pianta;
l’oidio o mal bianco semplice da riconoscere per la presenza sulle foglie di depositi polverosi biancastri;
il mal dello stacco che generalmente attacca i noccioli più vecchi e si manifesta con macchie bruno rossastre sulla corteccia e sui rami.
Il nocciolo può anche essere colpito da alcune infezioni batteriche come lo Xanthomonas campestris, un batterio che provoca l’accartocciamento e l’essiccazione precoce delle foglie e dei teneri germogli.
Tra le infestazioni parassitarie del nocciolo le più comuni sono :
l’Agrilo, un insetto che scavando gallerie nelle pertiche e nelle branche del nocciolo provoca l’ingiallimento della chioma e il disseccamento della pianta;
il Balanino, che con il suo rostro buca le foglie e le nocciole immature;
la Cimice del nocciolo che provoca con le sue punture l’avvizzimento o l’irrancidimento dei frutti;
il Cerambice del nocciolo, un insetto polifago che scavando delle gallerie circolari all’interno dei rami ne provoca il disseccamento e la frattura.
Cure e trattamenti
Liberare la base del nocciolo dalle erbe infestanti; smuovere periodicamente il terreno per favorirne l’arieggiamento. In caso di infestazioni fungine e antiparassitarie effettuare dei trattamenti con prodotti a base di rame, nebulizzano tutte le parti della pianta in una giornata soleggiata e non ventosa. Contro il mal bianco o oidio sono efficaci le irrorazioni di bicarbonato di sodio. Le piante infette e fortemente compromesse vanno estirpate e bruciate per evitare la diffusione delle infestazioni a quelle vicine.
Varietà di nocciole
Tra le tante varietà ricordiamo: la più famosa in tutto il mondo è sicuramente la Tonda gentile trilobata coltivata in Piemonte che viene impollinata bene dalla varietà Tonda Gentile Romana, che fiorisce nello stesso periodo e che è diffusa nel Lazio.

Tra le varietà più diffuse in Campania invece ricordiamo:

la nocciola Tonda di Giffoni, una delle varietà più pregiate con forma perfettamente rotondeggiante e polpa bianca, consistente e dal sapore gradevolmente aromatico,
la nocciola Mortarella che produce frutti più piccoli e dalla forma leggermente allungata;
la nocciola San Giovanni, una varietà diffusa nell’avellinese e nel napoletano, con forma allungata, lievemente compressa ai lati, guscio color marrone chiaro seme medio piccolo ma di buon sapore.
Usi del nocciolo
Il nocciolo viene coltivato anche per consolidare i terreni franosi e in questo caso le piante vanno messe a distanza di 3-5 metri tra loro. Il legno viene utilizzato per la produzione delle carbonelle da disegno e della polvere pirica.
Curiosità
I gusci delle nocciole vengono usati come combustibile e per la produzione di una preziosa fibra alimentare come risulta dalle ricerche fatte dagli esperti della Ferrero l’azienda famosa in tutto il mondo soprattutto per la produzione della nutella.

 

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Mille Piante – produzione e Vendita di Nocciole
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Pistacia vera L. Pistacchio

Il pistacchio (Pistacia vera – L.) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Anacardiaceae e del genere dei Pistacia
Storia e origine
È originario del Medio Oriente, dove veniva coltivato già in età preistorica, particolarmente in Persia. Come riferisce nel suo celebre I Dipnosofisti, Ateneo di Naucrati, scrittore e sofista greco vissuto nel II secolo, nell’Impero romano, diversi autori greci ed ellenistici parlano del pistacchio, collocandone la coltivazione in Siria, Persia e India, e chiamandolo bistachion o pistakia o pistakion. Destituita di fondamento è, quindi, la tesi, propugnata soprattutto per recenti ragioni ideologiche, secondo la quale “pistacchio” derivi dall’arabo (fustuaq).
Descrizione
Il pistacchio è un albero, caducifoglie e latifoglie, può raggiungere un’altezza di circa 11-12 metri, ma generalmente si ferma a 5-6 metri. Il pistacchio è molto longevo e raggiunge un’età di 300 anni circa, ma ha un accrescimento molto lento.

Il frutto è una drupa con un endocarpo ovale a guscio sottile e duro, contenente il seme, chiamato comunemente “pistacchio” che ha colore verde vivo sotto una buccia viola.

Il pistacchio ha fiori unisessuali ed è dioico, quindi vi sono piante con soli fiori maschili e piante con soli fiori femminili (che producono i frutti). I fiori sono a petali e raccolti in cime. Un albero maschile può produrre abbastanza polline per fecondare fino a 10 piante femminili. La fioritura avviene nel mese di aprile e la raccolta dei frutti avviene a settembre-ottobre. Il legno è duro e denso, ha un colore giallino.
Coltivazione
Il pistacchio fruttifica in un ciclo biennale, il che, insieme alle variazioni climatiche, causa grandi variazioni nelle rese e nei prezzi. In realtà la pianta produce frutti tutti gli anni, ma è molto soggetta ad alternanza di produzione, si hanno perciò anni di carica e anni di scarica (detti comunemente così per la quantità di produzione). Ci sono molte altre piante da frutto con questa caratteristica e si cerca di limitarla diradando i frutti nell’anno di carica per avere una produzione più o meno simile nei vari anni. Nel pistacchio, invece, si tolgono completamente, annullando la produzione negli anni di scarica per aumentarla negli anni di carica, da qui si ha una coltivazione con ciclo biennale.

In Italia vi è storicamente una coltivazione di nicchia: rinomati sono i pistacchi di Bronte e Adrano sulle pendici dell’Etna, tutelati dal marchio DOP “Pistacchio Verde di Bronte” e i pistacchi di Stigliano, in provincia di Matera. L’Italia è passata da una produzione di 2.400 tonnellate nel 2005 a 2.850 tonnellate del 2012, diventando il settimo produttore al mondo. Zone di coltivazione a rilevanza internazionale si trovano in Medio Oriente (soprattutto Iran, ma anche Turchia e Siria, anche se quest’ultima in forte calo), in California e, negli ultimi anni, anche in Cina. In Grecia, dove la produzione è in calo, ma si attesta attorno alle 10.000 tonnellate, si coltiva un pistacchio dal guscio quasi bianco, con nucleo rosso-verde e con l’apertura del guscio simile alla varietà “Kerman”, la varietà maggiormente utilizzata in California. La maggior parte della produzione in Grecia proviene dalla regione di Almyros.

Pistacchi varietà
La varietà più diffusa in Italia è la Bianca (comunemente chiamata Napoletana o Nostrale, il seme è verde e rappresenta il fattore commerciale di pregio). Altre varietà sono la Cappuccia, Cerasola, Insolia, Silvana, Femminella. Di recente introduzione sul mercato italiano sono le cultivar Kern, Red Aleppo e Larnaka.
Utilizzi
Una volta raccolto, il pistacchio va fatto asciugare e poi bisogna togliere il mallo che ricopre il guscio legnoso, infine si fa seccare per consentire la conservazione per lungo periodo e la vendita. I pistacchi vengono utilizzati sia sgusciati sia pelati, spesso tostati e salati, anche in pasticceria, per preparare gelati, creme, bevande e per la produzione di salumi, o come condimenti per primi e secondi piatti.
Composizione alimentare e valori nutrizionali
L’alimento è formato per l’83% da lipidi, per il 12% da proteine e per il 5% da carboidrati. Contiene sali minerali e molte vitamine.

I pistacchi, se coltivati in condizioni che espongono la pianta a grandi stress, possono soffrire di contaminazioni con la muffa Aspergillus flavus, che produce nei frutti la tossina insapore aflatossina. Come tutta la frutta a guscio la presenza del pistacchio negli alimenti va indicata per legge in etichetta, ciò al fine di prevenire il possibile scatenamento di un’allergia alimentare.
Principali nutrienti dei pistacchi
I pistacchi sono molto energetici ed hanno un alto contenuto calorico (circa 600 calorie per 100 grammi), vanno perciò consumati con moderazione soprattutto per chi ha problemi di ipertensione, diabete o obesità, anche perché sono spesso commercializzati dopo salatura.
Il contenuto lipidico è prevalentemente costituito da grassi mono e polinsaturi, perciò grassi “buoni”.
Nei pistacchi, rispetto ad altri semi oleosi, sono presenti maggiori quantità di sostanze antiossidanti: luteina, beta-carotene e tocoferoli.
Prezioso anche l’apporto di sali minerali (fosforo, calcio, potassio e ferro) e vitamine (E, B1 e B6).
ProprietàIn quanto molto energetici, i pistacchi sono ottimi per integrare la dieta dei bambini o di chi pratica sport.
L’assunzione regolare di pistacchi aiuta a tenere sotto controllo il livello di colesterolo nel sangue e a prevenire disturbi cardiovascolari.
Gli antiossidanti naturali di cui sono ricchi questi frutti contribuiscono a mantenere in salute pelle e occhi.
Nella medicina popolare tanto praticata dai nostri avi il pistacchio è stato usato contro mal di denti e disturbi al fegato.
Le proprietà curative e nutrizionali del pistacchio sono conosciute dall’antichità e questo prezioso seme è stato uno dei primi spuntini dell’uomo.
I pistacchi in cucinaIl pistacchio è un seme molto utilizzato in cucina.
Con il suo caratteristico colore verde (caratteristico al punto che il termine “pistacchio” è utilizzato per indicare precise tonalità di questo colore) e il suo sapore inconfondibile, il pistacchio è usato per condimenti e salse (da provare il pesto al pistacchio) nelle ricette salate, ma anche come ingrediente per dolci, gelati e torroni.
Una preparazione gastronomica molto diffusa e apprezzata è quella della mortadella aromatizzata al pistacchio.In Italia la coltivazione del pistacchio non è molto diffusa ma in Sicilia sono particolarmente rinomati i pistacchi di Bronte, tutelati dal marchio DOP: “Pistacchio Verde di Bronte”. Una curiosità: l’inno di Bronte è dedicato proprio a questo meraviglioso frutto della Terra e si intitola “Diamanti virdi”.
Oltreoceano i pistacchi hanno una storia relativamente recente: si sono affacciati nelle abitudini alimentari degli americani attraverso il gelato al pistacchio e venduti nei distributori come snack ma con il guscio dipinto di rosso per attirare l’attenzione.
Il pistacchio ha una storia molto antica invece nel “vecchio mondo”, dove è da sempre apprezzato tanto da aver ricevuto nomi di tutto rispetto che ne decantano l’importanza: in Iran viene chiamato il “seme che sorride” mentre in Cina il “seme felice”.

 

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Ribes L.

Ribes L., 1753 è un genere della famiglia delle Grossulariaceae.

Comprende piante coltivate a scopo alimentare (come il ribes rosso, l’uva spina, e il cassis utilizzato in Francia per la crème de cassis) e a scopo ornamentale.
Distribuzione e habitat
Sono arbusti diffusi in quasi tutta l’Europa e in gran parte del Nordamerica.
È presente anche in tutta l’Asia a nord di una linea che collega il Caucaso al Giappone meridionale, in aree ristrette del Nordafrica e lungo le Ande fino alla Terra del Fuoco.
Nel 1922 il pilota Gaspare Bona ha scoperto un tipo di Ribes (mai visto prima) a Carignano, in Piemonte: il Ribes Temmia.

Sistematica

Secondo la classificazione APG, Grossulariaceae appartengono all’ordine delle Sassifragali e in queste sono le più vicine, evolutivamente, alle Sassifragacee.
Tassonomia

Il genere Ribes comprende oltre 80 specie.

Coltivazione e usi
Le specie del genere Ribes si propagano facilmente per talea, margotta o semina. Le talee daranno frutti in 2 o 3 anni, mentre la semina in 4-5 anni.
Com’è fatto il ribes

Si tratta di un arbusto alto fino a 1,70 cm se nero (Ribes nigrum), 1,50 cm se rosso e 1,40 cm se bianco (entrambi Ribes rubrum), con diametro inferiore di un terzo rispetto all’altezza.
Ha foglie palmate a 3-5 lobi, alterne sui rametti, più grandi nel ribes nero e via via a scalare; nel nero portano nella pagina inferiore numerose ghiandole che secernono un odore penetrante e sgradevole.

Le infiorescenze a piccolo grappolo, di colore verde-rosato nel nero e verde-giallastro nel rosso e nel bianco, ermafrodite e insignificanti (tranne che nel ribes da fiore, Ribes alpinum, dove sono grappoli rosa acceso), nascono dalle gemme situate sui rami dell’anno precedente.
Da ciascun grappolo di fiori si sviluppano parecchi frutti (bacche), più grandi nel nero (fino a 1,2 cm di diametro), di colore nero opaco oppure a polpa trasparente avvolta da una pellicola color rosso rubino, o giallastro o bianco.
La polpa, che contiene vari semi, è intensamente odorosa, aromatica e dolce-acidula solo nel ribes nero, mentre nel rosso è acidula e aromatica, e nel bianco è dolciastra e poco aromatica.
La raccolta del ribes

Avviene in più riprese a partire dal mese di giugno e sino all’inizio di agosto, a seconda delle varietà e a partire dai grappoli più soleggiati. Con l’unghia si recide alla base il picciolo del grappolo.

Le bacche si conservano a temperatura ambiente per 2 giorni al massimo, in frigorifero per 7-10 giorni.
Le varietà di ribes

Il ribes rosso può produrre frutti rossi, ma anche bianchi o giallastri a seconda della varietà; il ribes nero produce sempre frutti neri a maturazione.

Tra le varietà più interessanti, a frutto rosso ci sono Fertile di Bertin, Jonkeer Van Tets e Rondom; a frutto bianco Versaillaise Blanche e Weisseperle; a frutto nero Noir de Bourgogne e Silvergieters Schwarze.

La coltivazione del ribes

Il ribes non teme il gelo (fino a –15 °C) ma non ama il caldo (max 30 °C) né la salsedine, non è quindi indicato per zone costiere, mentre è adattissimo alle Alpi e agli Appennini.
Il ribes nero preferisce un suolo di medio impasto, sciolto, con molto humus, piuttosto acido, profondo, permeabile e molto fertile; non sopporta i terreni argillosi. Il ribes rosso è più adattabile, ma non alla terra argillosa. Richiedono una posizione a mezzo sole in estate, sempre riparata dal vento.
La piantagione si effettua in marzo-aprile, ponendo nella buca concime organico e minerale. Le annaffiature sono indispensabili se non piove durante la primavera-estate. La concimazione va ripetuta ogni anno in primavera con un fertilizzante minerale per piccoli frutti. Si propaga per talea, tolta dai rami di un anno, e radicata in vaso per due anni.
Quanto alla forma di allevamento, il ribes rosso necessita spesso di sostegni, mentre il nero va contenuto nella sua esuberanza; è bene quindi creare un sistema di palatura collegato da fili di ferro robusto per legare i rami. L’ideale è la forma a vaso, da creare conservando i rami esterni, anche per arieggiare l’interno. In un giardino, il ribes può servire anche come piccola siepe o come esemplare isolato.
La potatura si deve limitare solo ai rami troppo vecchi, troppo sviluppati, quelli che tendono a crescere verso l’interno del cespuglio a formare un groviglio, e a quelli che si abbassano troppo verso terra.
Avendo bisogno di freddo, non necessita di alcuna protezione invernale. Richiede viceversa una protezione nei confronti del forte sole estivo: può essere sufficiente un albero che lo ombreggi, altrimenti serve una struttura d’incannucciato.
Il ribes rosso può essere coltivato in contenitore, di diametro 24 cm per pianta alta 40 cm, avendo cura di annaffiare molto spesso in estate e di concimare in abbondanza anche in autunno.
Le malattie e i parassiti più temibili sono due malattie fungine, l’oidio e la muffa grigia, che vanno combattute con poltiglia bordolese da irrorare in autunno, in inverno, due volte in primavera (non in fioritura) e una in estate dopo la raccolta.

Le proprietà nutrizionali del ribes
ribes nero
I frutti del ribes nero sono più sgranati e hanno un sapore molto intenso che non a tutti piace.

I ribes rossi e bianchi contengono quantità eccezionalmente elevate di polifenoli, stimabili intorno ai 4-5 grammi per chilo, mentre il ribes nero, conosciuto anche come “la perla della gemmoterapia”, occupa il primo posto per contenuto di vitamina C. Ha un’azione protettiva nei confronti delle malattie vascolari e dei fenomeni degenerativi e di invecchiamento delle cellule,ma soprattutto è noto per una sua particolare proprietà. Il preparato ottenuto dalla macerazione delle gemme fresche di Ribes nigrum in alcool è infatti in grado di stimolare le ghiandole surrenali, deputate alla produzione di cortisone endogeno: in pratica è il più potente preparato fitoterapico per combattere l’insorgenza e attenuare la violenza delle allergie stagionali.
Il ribes rosso è invece specialmente adatto a fare svaporare il senso di spossamento e stanchezza che soprattutto in inverno ci colpisce. Esiste una cura semplice e poco impegnativa, da osservare per 15 giorni consecutivi: mettete in infusione, in una tazza di acqua bollente, 1 cucchiaio di foglie secche di ribes rosso sminuzzate; aspettate 20 minuti; filtrate e bevete.

 

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Rubus ulmifolius Schott Rovo

Il rovo (Rubus ulmifolius Schott, 1818) è una pianta spinosa appartenente alla famiglia delle Rosaceae.
Descrizione

Si presenta come pianta arbusto perenne, sarmentosa con fusti aerei a sezione pentagonale lunghi anche oltre 6 metri, provvisti di spine arcuate.

È una semicaducifoglia; infatti, molte foglie permangono durante l’inverno.

Le foglie sono imparipennate, variabilmente costituite da 3 a 5 foglioline a margine seghettato di colore verde scuro, ellittiche o obovate e bruscamente acuminate, pagina superiore glabra e pagina inferiore tomentosa con peli bianchi e spine nella nervatura principale.

I fiori, bianchi o rosa, sono composti da cinque petali e cinque sepali. Sono raggruppati in racemi a formare infiorescenze di forma oblunga o piramidale. Il colore dei petali varia da esemplare a esemplare con dimensioni comprese tra i 10 e 15 mm. La fioritura compare al principio dell’estate, in giugno.

Il frutto commestibile, la mora, è composto da numerose piccole drupe, verdi al principio, poi rosse e infine nerastre a maturità, derivanti ognuna da carpelli separati ma facenti parte di uno stesso gineceo. In Italia il frutto è maturo in agosto e settembre; il gusto è variabile da dolce ad acidulo.

La moltiplicazione della pianta avviene per propaggine apicale o talea.
Distribuzione e habitat
Rubus ulmifolius in Europa

Il suo areale comprende quasi tutta l’Europa, il Nordafrica e il sud dell’Asia. È stata introdotta anche in America e Oceania.

La pianta è indicativa di terreni profondi e leggermente umidi. La riproduzione è sessuale attraverso i semi contenuti nelle drupe, ma anche vegetativa attraverso l’interramento di rami che danno origine ad una pianta nuova.

È considerata una infestante in quanto tende a diffondere rapidamente e si eradica con difficoltà. Né il taglio né l’incendio risultano efficaci. Anche gli erbicidi danno scarsi risultati. Poiché è una pianta eliofila, tollera poco l’ombra degli altri alberi, pertanto si riscontra ai margini dei boschi e lungo i sentieri, nelle siepi e nelle macchie.

Spesso nei boschi i rovi formano delle vere barriere intransitabili. Specialmente in associazione con la vitalba, essi possono creare dei grovigli inestricabili spesso a danno della vegetazione arborea che viene in pratica aggredita e soffocata. Tali situazioni sono quasi sempre l’espressione di un degrado boschivo.
Etimologia
Foglie

Il nome scientifico di questa specie è composto dal nome di genere Rubus e da quello di specie ulmifolius.

Rubus (dal latino ruber, rosso) potrebbe far riferimento al colore dei frutti maturi di altre specie dello stesso genere, come il lampone, o direttamente alla forma immatura del frutto di questa specie stessa.

Ulmifolius (dal latino ulmus, olmo e folia, foglia) deriva dalla similitudine con le foglie dell’albero Ulmus minor.

Usi

La pianta è utilizzata anche per delimitare proprietà e poderi, con funzioni principalmente difensive, sia per le numerose e robuste spine che ricoprono i rami, sia per il fitto e tenace intrico che essi formano, creando una barriera pressoché invalicabile.

Altre funzioni delle siepi di rovo sono nella fornitura di nettare per la produzione del miele anche monoflorale, in Spagna e Italia, e ancora nella associazione di specie antagoniste di parassiti delle colture (ad esempio le viticole), e nella formazione di corridoi ecologici per specie animali.

Il frutto, annoverato tra i cosiddetti frutti di bosco, ha discrete proprietà nutrizionali con marcata presenza di vitamine C e A. Cento grammi di more fresche contengono infatti 52 kcal, 0,7 g di proteine, 0,4 g di lipidi, 12,8 g di glucidi, 32 mg di calcio, 0,6 mg di ferro, 6,5 er (equivalente in retinolo) di vitamina A, 21 mg di vitamina C. Presenta indicazioni in erboristeria per le sue proprietà astringenti e lassative.

Si tratta di un frutto delicato, che mal si presta a lunghe conservazioni. È commercializzato per scopi alimentari al naturale e come guarnizione di dolci, yogurt e gelati, oppure nella confezione di marmellate, gelatine, sciroppi, vino e acquavite (ratafià).

Nell’uso popolare, i giovani germogli, raccolti in primavera, sono ottimi lessati brevemente e consumati con olio, sale e limone, al pari di molte altre erbe selvatiche primaverili.

I germogli primaverili, colti quando il sole è alto, lavati e lasciati a macerare in una brocca di acqua fredda tutta la notte, producono una bevanda rinfrescante.
Nutrienti nei semi
Le more rappresentano un’eccezione tra le altre bacche della specie Rubus per via dei semi grandi e numerosi, non sempre apprezzati dai consumatori. Essi contengono grandi quantità di acidi grassi omega-3 (acido alfalinolenico) e omega-6 (acido linoleico), proteine, fibra alimentare, carotenoidi, ellagitannini e acido ellagico.

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Frutti tropicali e subtropicali

Annona cherimola Miller Anona

 L’Annona cherimola è una pianta appartenente alla famiglia Annonaceae originaria degli altipiani andini di Perù, Ecuador, Colombia e Bolivia, diffusa anche in Cile, California, Florida, Africa del sud e in vari paesi del Mediterraneo.

Il suo frutto nella terra d’origine è chiamato chirimuya, da cui la traslitterazione italiana cirimoia, ma è volgarmente nota anche con l’appellativo inglese cherimoya o anona (che però indica anche il frutto di tutte le specie di genere Annona). Particolare il frutto attaccato all’albero con un tratto di ramo, non un semplice peduncolo. Contiene un elevato numero di semi. Nel Mediterraneo matura in autunno.
Il sapore è sub-acido e delicato, a volte descritto come una miscela tra ananas, mango e fragola.

“L’ananas, il mangostano e il cirimoia”, scrisse il botanico Berthold Carl Seemann, “sono considerati i frutti più pregiati del mondo, e li ho assaggiati in quelle località in cui dovrebbero raggiungere la loro massima perfezione – l’ananas in Guayaquil, il mangostano nell’arcipelago indiano e la cirimoia sulle pendici delle Ande, e se mi chiedessero quale sarebbe il frutto migliore, sceglierei senza esitazione, cirimoia: il suo sapore, infatti, supera quello di ogni altro frutto e Haenke aveva perfettamente ragione quando lo chiamava il capolavoro della Natura.”
Coltivazione

In Europa la cirimoia è ampiamente disponibile sui mercati a prezzi modici solo in Spagna, proveniente da notevoli estensioni di terra nella valle di Almuñécar, a Sud della Sierra Nevada.

In Italia, invece, la disponibilità di questo frutto è scarsa e perlopiù limitata alle grandi città, a eccezione delle poche zone nelle quali il frutto può essere coltivato (Sicilia orientale e provincia di Reggio Calabria in tutta la zona costiera che va da Bagnara Calabra a Roccella Jonica); altrove è presente solo a prezzi notevoli come curiosità esotica, di norma proveniente dalla Spagna. Predilige i versanti collinari esposti a Sud e prossimi al mare. Quando cresce nel terreno caldo, raramente fruttifica e i frutti sono di qualità inferiore.

In Ecuador, la cirimoia cresce in zone con temperature medie annuali comprese tra 18 e 20 °C, con minime comprese tra 10 e 12 °C massime tra 26,5 e 30 °C. La cirimoia selvatica cresce comunemente in zone con piovosità annua tra 800 e 1.000 mm (concentrata in 8 mesi all’anno) e con tassi di umidità alti, compresi tra 75% e 85%.

 

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Persea americana Avocado

Persea americana è un albero tropicale sempreverde, originario dell’America centrale;
questo frutto viene da secoli coltivato in gran parte delle zone tropicali del mondo: in America settentrionale e meridionale, in Africa, Australia, Asia, Nuova Zelanda e sulle coste del mediterraneo.
Ha chioma densa e fitta, tondeggiante e fusto eretto, si tratta di alberi molto longevi, che possono raggiungere i 9-18 metri di altezza nel corso degli anni. Il fogliame è ovale, di colore verde scuro, liscio e lucido, dall’aspetto ceroso; i fiori sbocciano dall’inizio della primavera fino ad estate inoltrata, sono piccoli, poco appariscenti, riuniti in racemi che ne contano migliaia, di questi solo alcuni verranno impollinati; la fioritura di lunga durata permette alla pianta di portare i frutti per un prolungato periodo di tempo: maturano dall’estate fino alla fine dell’autunno.
I frutti
di avocado sono drupe, simili a grosse pere, lunghe dai 10 ai 25 cm, di colore vario, dal verde scuro fino al porpora nerastro; la buccia può essere liscia o rugosa; la polpa è compatta e dolce, burrosa, di colore giallo chiaro, talvolta verde chiaro. Gli avocado non maturano quando sono attaccati alla pianta, in genere necessitano di alcune settimane per maturare dopo essere stati raccolti. Esistono centinaia di varietà di avocado, con frutti particolarmente grandi, o particolarmente saporiti; per favorire l’impollinazione nei frutteti coltivati ad avocado in genere si pongono a dimora almeno due varietà differenti. Gli avocado si consumano crudi, in insalata o salse, ma si utilizzano anche per preparare particolari ricette di origine centro americana.

Le piante di persea americana prediligono le posizioni soleggiate; possono sopportare brevi gelate di lieve entità, ma possono mostrare segni di sofferenza già con temperature al di sotto dei quattro gradi. E’ consigliabile coltivarli in luogo preservato dal gelo e dal vento freddo, che potrebbe causare la perdita dei frutti. Gli avocado vengono coltivati anche come piante da appartamento in vaso, in questo caso ricordiamo di evitare gli eccessi di annaffiature e di vaporizzare spesso il fogliame.

Annaffiature

Possono sopportare senza problemi la siccità; gli esemplari giovani vengono annaffiati frequentemente, evitando gli eccessi e l’acqua stagnante. Sono piante abituate a crescere in luoghi con temperature molto elevate e non amano i ristagni idrici che possono portare facilmente all’insorgenza di marciumi.
Terreno
Gli esemplari persea america si adattano abbastanza bene a qualsiasi terreno, purché sia ben drenato; non amano i terreni eccessivamente acidi o argillosi, prediligendo terreni sciolti ed abbastanza ricchi di materia organica in grado di fornire tutto il nutrimento necessario così che la pianta cresca sana e rigogliosa.
Moltiplicazione

Avviene generalmente per seme; i grossi semi si trovano all’interno del frutto, ed hanno una germinabilità abbastanza breve. Le piante di interesse commerciale vengono propagate praticando degli innesti, poiché non sempre le piante prodotte da seme producono frutti identici a quelli della pianta madre.

Parassiti e malattie
Temono il marciume radicale e lo sviluppo di muffe o funghi nei pressi del colletto, favoriti dall’eccesso di annaffiature e dall’acqua stagnante; in coltivazione vengono spesso attaccati da insetti defogliatori e dalle mosche della frutta.

 

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Carica X pentagona Heilborn Babaco

Il Babaco (Carica × pentagona Heilborn) appartenente alla Famiglia della Caricaceae, è un ibrido naturale tra due specie di arbusti affini alla papaya (Carica papaya), Carica pubescens (sin. Vasconcellea curdinamarcensis) e Carica stipulata (sin. Vasconcellea stipulata). Originario dell’America del Sud (altipiani dell’Equador) viene coltivato anche in Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito ed in piccola misura in Italia, soprattutto in Puglia poiché è in grado di sopportare bene le temperature più basse, anche di poco superiori allo zero.

Questo frutto, il cui nome scientifico deriva dalla sua sezione tipicamente pentagonale simile al peperone, ha la dimensione e l’aspetto del melone invernale. Quando è maturo ha un colore giallo striato di verde e un sapore che ricorda quello dell’ananas e dell’arancia. Privo di semi e con buccia sottile commestibile, può essere consumato anche acerbo e si conserva molto bene e a lungo in frigo.

Con predilezione per i terreni umidi e piovosi, preferibilmente con temperature comprese tra i 14° C ed i 30° C, il fusto è spugnoso, fibroso, grigiastro e presenta un diametro decrescente dalla base all’apice. I frutti raggiungono l’apice della maturazione in primavera ed estate.
Proprietà e benefici

Di seguito vengono elencate alcune proprietà del babaco benefiche per l’organismo umano.

Con proprietà antinfettive e digestive, grazie all’elevato contenuto di vitamina C è considerato un ottimo antiossidante in grado di potenziare le difese immunitarie.
È una buona fonte di minerali, come il potassio, utile per la salute cardiovascolare. Il potassio in particolare aiuta ad equilibrare la presenza dei liquidi nel corpo contrastando la ritenzione idrica.
Le proprietà rinfrescanti sono note specie se consumato sotto forma di polpa, frullato o sorbetto.

Il babaco può quindi essere considerato un elisir di lunga vita che racchiude, oltre alle notevoli proprietà antiossidanti, qualità nutritive preziose per il benessere del nostro organismo oltre che per l’aspetto esteriore, grazie alla produzione di collagene stimolata dalla vitamina C contenuta.

Nonostante il sapore zuccherino questo frutto è ipocalorico, basti pensare che una porzione da 100 g conta soltanto 21 kcal.
Come gustarlo

Assumere il babaco quotidianamente garantisce un buon apporto di antiossidanti, soprattutto se consumato come frutto intero. In particolare, la polpa contiene tutte le sostanze nutritive e se lo si vuole utilizzare per preparare una macedonia è possibile inserire pure la buccia, anch’essa ricca di nutrienti.

Il babaco può essere consumato fresco oppure per preparare bevande, composte di frutta e come condimento per i dolci. Il suo succo, filtrato e non, riesce a donare le giuste energie per affrontare le prime ore del giorno ed è un ottimo rinfrescante dalla calura.

Inoltre può essere condito con salse quali curry o chutney, oppure preparato come contorno per piatti a base di carne.
Curiosità

Nella provincia di Luya, in Perù, si ottiene un liquore di babaco lasciando macerare nell’aguardiente (liquore secco ottenuto con alcool extrapuro) la polpa ed i semi.

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Acca O. Berg Feijoa

Acca sellowiana (O. Berg) Burret (sinonimo: Feijoa sellowiana), conosciuta con il nome portoghese di feijoa o con quello spagnolo di guayabo del Brasile, è un arbusto sempreverde della famiglia delle Mirtacee.
È alto tra uno e sette metri ed è originario degli altipiani del Brasile meridionale, dell’Argentina settentrionale e di alcune zone della Colombia, dell’Uruguay; predilige le aree montane.

È ampiamente coltivato come pianta da giardino e come albero da frutta.

Non deve essere confuso con la guaiava (Psidium guajava), pur appartenente alla stessa famiglia.
Nome

Nonostante, per priorità di attribuzione, sia più corretto definire questa specie come Acca sellowiana, il nome scientifico usato per lungo tempo, e ancor oggi più comune, è Feijoa sellowiana.

Il nome feijoa è portoghese è stato scelto per ricordare il naturalista João da Silva Feijó, che faceva parte del gruppo di studiosi che ha fondato il Museo di Storia Naturale di Lisbona, coordinato dall’italiano Domenico Agostino Vandelli, e che compì varie spedizioni botaniche, specie a Capo Verde.

Il nome Acca è il termine peruviano che indica questo albero.

Il nome sellowiana, è stato scelto per ricordare Friedrich Sellow (1789-1831), naturalista tedesco, esploratore del Brasile e dell’Uruguay, paesi di cui studiò a lungo la flora. Fu Sellow il primo europeo a scoprire questa specie, nel 1819, nel corso di una spedizione scientifica nello stato brasiliano del Rio Grande del Sud[1].
Descrizione

La feijoa è un arbusto di norma a più fusti, sempreverde a crescita lenta, che può arrivare a 4–7 m.

Le foglie scure, lucide, spesse, ellittiche, opposte, sono lunghe circa 5 cm. La pagina inferiore è feltrosa (finemente pelosa). È possibile fare infusi con le foglie essiccate.

I fiori, medio-piccoli, spesso raccolti a gruppi sono numerosi, di colore bianco rosacei, hanno numerosi stami rosso violetti molto vistosi. È probabile che nelle zone d’origine l’impollinazione sia effettuata anche da uccelli. I petali dei fiori possono essere utilizzati per insalate, dato che sono robusti, croccanti e dolci; o fatti sciogliere sulla lingua.

I frutti di Acca sellowiana, hanno una robusta scorza verde, polpa bianca traslucida o giallastra, gelatinosa e con numerosi piccoli durissimi semi, i frutti sono grandi come prugne, ovali o piriformi, sono commestibili. I frutti sono estremamente profumati, anche se non dolcissimi, il sapore della polpa, morbida, è stato giudicato a metà tra l’ananas e la fragola, la parte commestibile è comunque modesta come quantità, per la presenza dominante di buccia e semi.

La maturazione del frutto avviene (in funzione alla stagione meteorologica) nei mesi di settembre e ottobre. Quando raggiungono la maturazione, i frutti si staccano spontaneamente dall’albero e cadono, questo è la maniera comune per procedere alla raccolta, dato che la buccia è robusta; si sbucciano con un coltello, o si estrae la polpa con un cucchiaino dal frutto aperto a metà, e si consumano freschi. Come per le banane, i frutti raccolti hanno una breve durata: 5-6 giorni se conservati in luogo fresco. La raccolta al suolo è indicata soprattutto per la preparazione a breve termine di una confettura, adoperando come addensante la polpa di alcune mele, possibilmente acerbe.

La raccolta dall’albero permette di avere frutta di durata leggermente maggiore, ma occorre raccogliere frutti maturi, cioè che si stacchino agevolmente dai rami; per il resto solo un leggero rammollimento della polpa ed un leggerissimo schiarimento di colore della buccia, sono i non facili segnali della avvenuta maturazione. I frutti raccolti immaturi non maturano in un secondo tempo, come invece accade per le mele.

Cultivar
Dalla Acca sellowiana sono state ricavate varie cultivar ad esempio le varietà Triumph, Colidge, Mammoth, Apollo, Gemini, Moore. Queste cultivar hanno diversa grandezza, forma e tempo di maturazione dei frutti. Alcune variano anche per modalità di impollinazione.

La condizione di avere frutti piuttosto grandi è stata raggiunta con relativa facilità, la stessa condizione non è stata raggiunta per dolcezza e profumo. Per tutte le cultivar: la presenza contigua di cultivar diverse migliora la quantità e la qualità dei frutti.

Acca sellowiana ‘Unique’: l’albero è di circa due metri e mezzo di altezza e robusto, il frutto matura in anticipo ed ha una forma ovale e dalla superficie liscia. Può essere consumato fresco o inscatolato. Si autoimpollina.
Acca sellowiana ‘Mammoth’: l’albero è dritto e arriva a 3 metri di altezza. Il nome deriva dal fatto che il frutto è di diametro maggiore rispetto alle altre cultivar; inoltre è di impasto più granuloso e ha una pelle leggermente rugosa. La Mammouth si autoimpollina ma la pianta dà frutti più grandi con l’impollinazione incrociata.
Acca sellowiana ‘Gemini’: l’albero è meno robusto rispetto ad altre varietà e raggiunge i due metri e mezzo di altezza. La fioritura è abbondante e la maturazione della frutta precoce, con una buona resa del raccolto. Il frutto è medio piccolo, di pelle scura e molto sottile, ma molto gustoso. La pianta si autoimpollina solo parzialmente, per dare più frutti richiede l’impollinazione incrociata, possibilmente con la cultivar ‘Apollo’.
Acca sellowiana ‘Robert’: pianta adatta alle coltivazioni estese, se troppo sfruttata presenta foglie color ruggine. I frutti sono piccoli, la polpa succosa e granulosa. Matura molto precocemente, anche due mesi prima delle altre varietà. Se non viene impollinata con l’impollinazione incrociata può dare frutta apparentemente commerciabile, ma in realtà senza polpa.
Acca sellowiana ‘Smith’: è una varietà che dà raccolti abbondanti di frutta medio-grande.
Coltivazione

La coltivazione della feijoa ha avuto particolare successo, oltre al Sudamerica che ne è terra d’origine, in alcuni paesi dell’ex-Unione Sovietica (p.es. Georgia, Azerbaigian) e in Nuova Zelanda.

La feijoa, pur essendo di origine semi-tropicale, sopporta anche temperature basse, (fino a −12 °C).

La specie è spesso autosterile, cioè per avere frutto è necessario coltivare almeno due varietà diverse o avere piante prodotte da semi diversi per l’impollinazione incrociata. La pianta è molto resistente, accetta anche suoli sassosi o sabbiosi purché sufficientemente profondi, ma non sopporta suoli eccessivamente umidi e poco drenati. Sopporta discretamente la siccità (specie se in suolo profondo) e col suo fogliame robusto sopporta bene i venti salini. Eccessi di temperatura estiva compromettono l’aroma ed il profumo (che è fattore di rilievo) dei frutti, che rischiano di essere scialbi e di scarso aroma. In locazioni naturali semitropicali (come l’America meridionale) il clima adatto non è quello caldo ed afoso dei bassopiani, ma è quello di montagna, con temperature moderate e clima notturno fresco, se non freddo.

In luoghi ventosi le siepi di feijoa sono spesso usate per costituire siepi antivento.
Usi medicinali

L’Acca sellowiana è ricca di iodio, se ne conta circa il 3% di prodotto fresco. Sia il frutto che le foglie, ma soprattutto i semi hanno proprietà antibatteriche e gli stessi frutti carnosi e profumati hanno proprietà antiossidanti. Il suo estratto viene utilizzato per le sue proprietà emollienti, toniche ed elasticizzanti.
Curiosità
Acca sellowiana nelle ex colonie spagnole condivide con il genere Psidium (appartenente alla stessa famiglia, e morfologicamente con frutti abbastanza simili) il nome comune di guayabo: oltre ad indicare l’arbusto, guayabo serve anche per indicare le ragazze giovani e attraenti.

È una pianta succulenta e prelibata arborescente che può raggiungere i 4-5 metri di altezza.

Il fusto è composto da cladodi, comunemente denominati pale: si tratta di fusti modificati, di forma appiattita e ovaliforme, lunghi da 30 a 40 cm, larghi da 15 a 25 cm e spessi 1,5-3,0 cm, che, unendosi gli uni agli altri formano delle ramificazioni. I cladodi assicurano la fotosintesi clorofilliana, vicariando la funzione delle foglie. Sono ricoperti da una cuticola cerosa che limita la traspirazione e rappresenta una barriera contro i predatori. I cladodi basali, intorno al quarto anno di crescita, vanno incontro a lignificazione dando vita ad un vero e proprio fusto.

Le vere foglie hanno una forma conica e sono lunghe appena qualche millimetro. Appaiono sui cladodi giovani e sono effimere. Alla base delle foglie si trovano le areole (circa 150 per cladode) che sono delle ascelle modificate, tipiche delle Cactaceae.

Il tessuto meristematico dell’areola si può differenziare, secondo i casi, in spine e glochidi, ovvero può dare vita a radici avventizie, a dei nuovi cladodi o a dei fiori. Da notare che anche il ricettacolo fiorale, e dunque il frutto, è coperto da areole da cui si possono differenziare sia nuovi fiori che radici.

Le spine propriamente dette sono biancastre, sclerificate, solidamente impiantate, lunghe da 1 a 2 cm. Esistono anche varietà di Opuntia inermi, senza spine.

I glochidi sono invece sottili spine lunghe alcuni millimetri, di colore brunastro, che si staccano facilmente dalla pianta al contatto, ma essendo muniti di minuscole scaglie a forma di uncino, si impiantano solidamente nella cute e sono molto difficili da estrarre, in quanto si rompono facilmente quando si cerca di toglierle. Sono sempre presenti, anche nelle varietà inermi.

L’apparato radicale è superficiale, non supera in genere i 30 cm di profondità nel suolo, ma di contro è molto esteso.

I fiori sono a ovario infero e uniloculare. Il pistillo è sormontato da uno stimma multiplo. Gli stami sono molto numerosi. I sepali sono poco vistosi mentre i petali sono ben visibili e di colore giallo-arancio.
Frutto di O. ficus-indica

I fiori si differenziano generalmente sui cladodi di oltre un anno di vita, più spesso sulle areole situate sulla sommità del cladode o sulla superficie più esposta al sole. All’inizio, per ogni areola, si sviluppa un unico fiore. I fiori giovani portano delle foglie effimere caratteristiche della specie. Un cladode fertile può portare sino a una trentina di fiori, ma questo numero varia considerevolmente in base alla posizione che il cladode occupa sulla pianta, alla sua esposizione e anche in base alle condizioni di nutrizione della pianta.

Il frutto è una bacca carnosa, uniloculare, con numerosi semi (polispermica), il cui peso può variare da 150 a 400 g. Deriva dall’ovario infero aderente al ricettacolo fiorale. Certi autori lo considerano un falso arillo. Il colore è differente a seconda delle varietà: giallo-arancione nella varietà sulfarina, rosso porpora nella varietà sanguigna e bianco nella muscaredda. La forma è anch’essa molto variabile, non solo secondo le varietà ma anche in rapporto all’epoca di formazione: i primi frutti sono tondeggianti, quelli più tardivi hanno una forma allungata e peduncolata. Ogni frutto contiene un gran numero di semi, nell’ordine di 300 per un frutto di 160 g. Molto dolci, i frutti sono commestibili e hanno un ottimo sapore. Una volta sbucciati e privati delle punte si possono tenere in frigorifero e mangiare freddi.

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Fico d’India

È una pianta succulenta e prelibata arborescente che può raggiungere i 4-5 metri di altezza.

Il fusto è composto da cladodi, comunemente denominati pale: si tratta di fusti modificati, di forma appiattita e ovaliforme, lunghi da 30 a 40 cm, larghi da 15 a 25 cm e spessi 1,5-3,0 cm, che, unendosi gli uni agli altri formano delle ramificazioni. I cladodi assicurano la fotosintesi clorofilliana, vicariando la funzione delle foglie. Sono ricoperti da una cuticola cerosa che limita la traspirazione e rappresenta una barriera contro i predatori. I cladodi basali, intorno al quarto anno di crescita, vanno incontro a lignificazione dando vita ad un vero e proprio fusto.

Le vere foglie hanno una forma conica e sono lunghe appena qualche millimetro. Appaiono sui cladodi giovani e sono effimere. Alla base delle foglie si trovano le areole (circa 150 per cladode) che sono delle ascelle modificate, tipiche delle Cactaceae.

Il tessuto meristematico dell’areola si può differenziare, secondo i casi, in spine e glochidi, ovvero può dare vita a radici avventizie, a dei nuovi cladodi o a dei fiori. Da notare che anche il ricettacolo fiorale, e dunque il frutto, è coperto da areole da cui si possono differenziare sia nuovi fiori che radici.

Le spine propriamente dette sono biancastre, sclerificate, solidamente impiantate, lunghe da 1 a 2 cm. Esistono anche varietà di Opuntia inermi, senza spine.

I glochidi sono invece sottili spine lunghe alcuni millimetri, di colore brunastro, che si staccano facilmente dalla pianta al contatto, ma essendo muniti di minuscole scaglie a forma di uncino, si impiantano solidamente nella cute e sono molto difficili da estrarre, in quanto si rompono facilmente quando si cerca di toglierle. Sono sempre presenti, anche nelle varietà inermi.

L’apparato radicale è superficiale, non supera in genere i 30 cm di profondità nel suolo, ma di contro è molto esteso.

I fiori sono a ovario infero e uniloculare. Il pistillo è sormontato da uno stimma multiplo. Gli stami sono molto numerosi. I sepali sono poco vistosi mentre i petali sono ben visibili e di colore giallo-arancio.
Frutto di O. ficus-indica

I fiori si differenziano generalmente sui cladodi di oltre un anno di vita, più spesso sulle areole situate sulla sommità del cladode o sulla superficie più esposta al sole. All’inizio, per ogni areola, si sviluppa un unico fiore. I fiori giovani portano delle foglie effimere caratteristiche della specie. Un cladode fertile può portare sino a una trentina di fiori, ma questo numero varia considerevolmente in base alla posizione che il cladode occupa sulla pianta, alla sua esposizione e anche in base alle condizioni di nutrizione della pianta.

Il frutto è una bacca carnosa, uniloculare, con numerosi semi (polispermica), il cui peso può variare da 150 a 400 g. Deriva dall’ovario infero aderente al ricettacolo fiorale. Certi autori lo considerano un falso arillo. Il colore è differente a seconda delle varietà: giallo-arancione nella varietà sulfarina, rosso porpora nella varietà sanguigna e bianco nella muscaredda. La forma è anch’essa molto variabile, non solo secondo le varietà ma anche in rapporto all’epoca di formazione: i primi frutti sono tondeggianti, quelli più tardivi hanno una forma allungata e peduncolata. Ogni frutto contiene un gran numero di semi, nell’ordine di 300 per un frutto di 160 g. Molto dolci, i frutti sono commestibili e hanno un ottimo sapore. Una volta sbucciati e privati delle punte si possono tenere in frigorifero e mangiare freddi.

Avversità
Insetti
Dactylopius coccus
Cactoblastis cactorum
Ceratitis capitata

Le cocciniglie del genere Dactylopius (in particolare Dactylopius coccus e Dactylopius opuntiae) sono fitofagi associati alle Cactacee del genere Opuntia. Fatta eccezione per Dactylopius coccus, considerata specie utile perché utilizzata per l’estrazione del rosso carminio e perché il fico d’India mostra una discreta tolleranza, le altre specie di Dactylopius sono dannose a causa della immissione, con la saliva, di un principio attivo fitotossico. Queste cocciniglie sono state infatti impiegate per il controllo biologico delle infestazioni di Opuntia stricta in alcune parti del mondo (Australia, Africa, India). Le cocciniglie s’insediano prevalentemente sui cladodi formando abbondanti colonie.
La farfalla del Cactus (Cactoblastis cactorum) è un Lepidottero originario del Sudamerica (Argentina e Uruguay) diffuso ora in varie parti del mondo. Le larve, gregarie, penetrano all’interno dei cladodi scavando mine da cui fuoriescono essudati e rosura, provocando l’ingiallimento esterno. La specie, utilizzata efficacemente per il controllo biologico delle Opuntia stricta infestanti in Australia, isole Hawaii, Sudafrica, Caraibi, si sta rivelando dannosa nei confronti di diverse cactacee negli Stati Uniti d’America del sud e nell’America centrale.
La mosca mediterranea della frutta (Ceratitis capitata) è un Dittero Tefritide originario dell’Africa e diventato cosmopolita nelle regioni tropicali e subtropicali del mondo. Estremamente polifago, nelle regioni meridionali del Mediterraneo, rappresenta uno dei più temibili agenti di danno a carico soprattutto della frutta estiva. In Italia sverna nelle regioni più calde (Sicilia, Sardegna, Italia meridionale) negli agrumi. Le generazioni presenti dalla tarda estate all’inizio dell’autunno si trovano in condizioni di scarsa disponibilità alimentare, quando la produzione di frutta estiva è in diminuzione e le produzioni agrumicole sono ancora premature, perciò gli attacchi si riversano prevalentemente sul kaki e, soprattutto, sui frutti del fico d’India. Gli attacchi si manifestano con lo sviluppo di più larve all’interno della polpa determinandone in breve tempo la marcescenza.
Le vespe rappresentano occasionalmente altri gravi agenti di danno a carico dei frutti. Con l’apparato boccale masticatore lacerano l’epicarpo e prelevano a più riprese la polpa svuotando progressivamente il frutto. Anche il principio di attacco in ogni modo rende inutilizzabile il prodotto in quanto le ferite praticate permettono l’ingresso di agenti microbici che provocano marciumi e fermentazioni.

Funghi

Altre avversità a carico del fico d’India sono causate da agenti patogeni, fra i quali spiccano alcuni agenti fungini ubiquitari, agenti di marciumi alle radici (Fusarium sp. e Phytophtora sp.).
La Botryosphaeria ribis (forma sessuata di Dothiorella ribis) è responsabile, con altre specie dello stesso genere, della formazione di lesioni umide sul fusto di varie piante. Da queste lesioni fuoriescono essudati gommosi, da cui deriva la denominazione comune di cancro gommoso attribuita a questa patologia. Gli agrumi sono le specie d’interesse agrario più colpite, ma questo fungo può causare la stessa patologia anche sul fico d’India. I cancri si formano sui cladodi. In caso di attacchi gravi si ha il disseccamento dei cladodi e il progressivo deperimento delle piante.
Fra le crittogame specifiche più frequenti in Sicilia si cita la ruggine scabbiosa, causata dal fungo

Usi
Usi alimentari

L’Opuntia ficus-indica, per la sua capacità di svilupparsi anche in presenza di poca acqua, si rivela una pianta di enormi potenzialità per l’agricoltura e l’alimentazione dei paesi aridi. Ha un notevole valore nutrizionale essendo ricco di minerali, soprattutto calcio e fosforo, oltreché di vitamina C.

La risorsa alimentare più pregiata è rappresentata dai frutti, chiamati fichi d’India, che oltre ad essere consumati freschi, possono essere utilizzati per la produzione di succhi, liquori, gelatine (in Sicilia p.es. detta mostarda), marmellate, dolcificanti ed altro; ma anche le pale, più propriamente i cladodi, possono essere mangiati freschi, in salamoia, sottoaceto, canditi, sotto forma di confettura. Vengono utilizzati anche come foraggio. Una farina ottenuta dalle bucce dei frutti può essere come ingrediente per la produzione di biscotti.

Se consumato in quantità eccessive può causare occlusione intestinale meccanica dovuta alla formazione di boli di semi nell’intestino crasso. Pertanto questo frutto va mangiato in quantità moderata e accompagnato da pane per impedire ai semi, durante l’assorbimento della parte polpacea, di conglobarsi e formare i “tappi” occlusivi. Per analogo motivo è sconsigliato questo frutto alle persone affette da diverticolosi intestinale. Questo problema è lo sfondo di una poesia di Giuseppe Coniglio, poeta di Pazzano, nel libro A terra mia.

Peculiari della tradizione messicana sono il miel de tuna, uno sciroppo ottenuto dall’ebollizione del succo, il queso de tuna, una pasta dolce ottenuta portando il succo alla solidificazione, la melcocha, una gelatina ricavata dalle mucillagini dei cladodi, ed il colonche una bevanda fermentata a basso tenore alcolico.

In Sicilia si produce tradizionalmente uno sciroppo, ottenuto concentrando la polpa privata dei semi, del tutto simile come consistenza e gusto allo sciroppo d’acero, ed utilizzato nella preparazione di dolci rustici. È utilizzato anche come infuso per un liquore digestivo.

La produzione di cladodi a scopo alimentare è ottenuta da varietà a basso tenore in mucillagini selezionate in Messico. Le pale del fico d’India (nopales), spinate accuratamente e scottate su piastre arroventate di pietra o di ferro, fanno parte delle abitudini alimentari del Messico, così come di altri paesi latinoamericani. Non è difficile trovarne nei mercati rionali già pronte all’uso o vendute dagli ambulanti per le strade, insieme a crema di fagioli, mais e cipolla.

La diffusione capillare in Sicilia, lo storico e ampio uso che se ne fa nella cucina siciliana hanno portato il ficodindia generico (Opuntia ficus-indica) ad essere inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf) come prodotto tipico siciliano. Su proposta della Regione Siciliana sono stati riconosciuti anche i seguenti prodotti tradizionali come eccellenze specifiche del territorio:

Ficodindia della valle del Belice
Ficodindia della valle del Torto
Ficodindia di San Cono
Bastarduna di Calatafimi

Il ficodindia di San Cono e il ficodindia dell’Etna sono inoltre riconosciuti come prodotti a Denominazione di origine protetta (DOP).

Usi terapeutici
Avvertenza
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico

Nella medicina popolare:

i frutti sono considerati astringenti; per la loro ricchezza in vitamina C sono stati usati in passato dai naviganti per la prevenzione dello scorbuto
i giovani cladodi, riscaldati al forno, vengono utilizzati come emollienti, applicati in forma di cataplasma.
l’applicazione diretta della “polpa” dei cladodi su ferite e piaghe costituisce un ottimo rimedio antiflogistico, riepitelizzante e cicatrizzante su ferite e ulcere cutanee; è un vecchio rimedio della tradizione siciliana, utilizzato ancor oggi nella cultura contadina isolana
il decotto di fiori ha proprietà diuretiche.

Evidenze mediche recenti:

i frutti di O. ficus-indica hanno marcate proprietà antiossidanti.
l’efficacia di un estratto di O. ficus-indica nella cura dei postumi della intossicazione alcolica è stata dimostrata in uno studio clinico controllato randomizzato.
La notevole concentrazione della frazione polisaccaridica presente nei cladodi del ficodindia, così come in altre specie di Opuntia, costituita prevalentemente da un polimero di galattosio, arabinosio e altri zuccheri denominato opuntiamannano,comporta la capacità di legare i grassi e gli zuccheri ingeriti (resi pertanto non assorbibili); con risultati positivi sul metabolismo glico-lipidico e nella sindrome metabolica.
le mucillagini e le pectine presenti nei cladodi di O. ficus-indica hanno dimostrato un effetto gastroprotettivo negli animali da esperimento.

Altri usi

In Messico la O. ficus-indica è utilizzata per l’allevamento del Dactylopius coccus, una cocciniglia che parassita i cladodi, da cui si ricava un pregiato colorante naturale, il carminio. I tentativi di importare l’allevamento anche nel Mediterraneo non hanno avuto successo per l’evenienza, nei mesi invernali, di temperature eccessivamente basse e di piogge frequenti che impediscono la sopravvivenza dell’insetto. L’allevamento si è affermato, invece, nelle Isole Canarie, soprattutto nell’isola di Lanzarote, dove costituisce una fiorente attività economica.
In agronomia è utile per la difesa del suolo, per la realizzazione di siepi frangivento, per la pacciamatura, per la produzione di compost.
In cosmetica viene utilizzata per la produzione di creme umettanti, saponi, shampoo, lozioni astringenti e per il corpo, rossetti.
È utilizzata inoltre per la produzione di adesivi e gomme, fibre per manufatti e carta.
Dai semi viene estratto l’olio
Viene anche utilizzata per produrre miele.

Il ficodindia nella cultura

A testimonianza di quanto il fico d’India sia legato, nell’immaginario collettivo, alla Sicilia, vale la pena citare un aneddoto (riportato nel libro di Barbera e Inglese Ficodindia – v. bibliografia) secondo il quale Natale Giaggioli, storico fotoreporter palermitano, constatando la propensione dei grandi quotidiani a pubblicare foto di omicidi solo se sullo sfondo si intravedeva un fico d’India, se ne portava sempre uno di cartapesta nel bagagliaio dell’auto, tirandolo fuori quando arrivava sulla scena del delitto.
In Eritrea la pianta è arrivata con la colonizzazione italiana nella seconda metà dell’Ottocento. Oggi è infestante di intere montagne dell’altipiano e costituisce una fonte di nutrimento molto importante per la popolazione, i frutti vengono raccolti nelle campagne dai ragazzini, che poi li rivendono sui marciapiedi delle città e lungo le strade. Il periodo di maggior raccolta è tra la fine di luglio e nel mese di agosto, periodo che coincide con il ritorno degli emigrati all’estero che vengono chiamati in tigrino beles, come i frutti della pianta.
Il fico d’India (assieme all’agave, altra specie messicana) compare sempre negli esterni dei film sulla vita di Gesù, come elemento caratteristico della flora della Palestina di quei tempi. Questo incredibile anacronismo è costante. Per tutti si veda il Gesù di Nazareth di Zeffirelli.

In Sicilia viene utilizzato come alimento prezioso per l’inizio della giornata lavorativa del contadino, soprattutto nella stagione della vendemmia; in tutta l’Isola (da San Cono (CT) alle pendici dell’Etna, dal nisseno fino all’agrigentino) è tradizione infatti consumare fichidindia durante la colazione: costume che deriva dall’antica usanza del proprietario della vigna che donava senza parsimonia questi dolci frutti ai suoi vendemmiatori per impedire che mangiassero troppa uva durante il raccolto, anche a scapito talvolta di problemi intestinali.
Il nome della antica capitale imperiale azteca Tenochtitlan (la odierna Città del Messico) deriva da nocthli, il nome azteco del frutto del ficodindia, e significa letteralmente ficodindia su una roccia.
Il fico d’India compare sullo stemma della bandiera messicana.
Le pale e i frutti del fico d’India sono immortalate nella Fontana dei Quattro Fiumi di Gian Lorenzo Bernini, a Roma
Nel campo delle arti figurative il fico d’India appare in opere di Bruegel il Vecchio , Frida Kahlo , Man Ray, Roy.

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Psidium guajava L. Guava

La guaiava o guava (Psidium guajava L., 1753), spesso chiamata anche con il nome spagnolo Guayaba, è un piccolo albero appartenente alla famiglia delle Myrtaceae. L’albero è diffusamente coltivato nelle zone tropicali per il valore commerciale dei suoi frutti.
Descrizione

È un alberetto caducifoglio che raggiunge un’altezza tra i 2 e i 7 metri; ha tronco diritto e ramificato. La corteccia è grigia e presenta macchie marroni.

Le foglie sono semplici, di colore verde chiaro in quanto ricoperte di una fine peluria, possono raggiungere i 15 cm di lunghezza.
fiori

I fiori sono bianchi, grandi, profumati, di solitari o raggruppati in piccoli grappoli.

Hanno 4 o 5 sepali verdi verso l’esterno e bianchi all’interno e 4-5 petali bianchi. Gli stami sono numerosi. L’impollinazione è entomogama.

Il frutto è una bacca di forma variabile (sferica, ellittica, piriforme), di colore giallo o verde-giallo, liscio o rugoso, con polpa bianca o bianco-gialla o rosa o rossa, dolce, agrodolce o acido, con numerosi semi, piccoli e bianchi. Il peso varia tra 130 e 800 g circa, con un peso medio di 390 g/frutto.
Storia
Il luogo di origine della guava non è certo, ma si ritiene essere un’area compresa tra il Messico meridionale e l’America Centrale. È stata poi diffusa dall’uomo, dagli uccelli e da altri animali in tutte le aree temperato-calde dell’America tropicale e nelle Indie Occidentali (dal XVI secolo). La guava era già nota agli Aztechi, che la chiamavano Xalxocotl (prugna di sabbia); in tempi successivi le prime notizie storiche risalgono ai primi decenni del Cinquecento ad opera di Hernenz de Oviedo. La guava al giorno d’oggi viene coltivata prevalentemente nel mondo Arabo e nelle Filippine.
Varietà

Ci sono più di 150 cultivar, tra le quali:

Brazilian guava
Guisaro (Psidium guinense Sw.)
Cattley Guava
Strawberry Guava (Psidium cattleianum Sabine)
Costa Rican Guava (Psidium friedrichsthalianum Ndz.)
Para Guava (Psidium acutangulum DC.)
Rumberry
Guavaberry (Myrciaria floribunda Berg.)
Produzione

La pianta cresce in ambienti subtropicali e temperato-caldi (area di coltivazione del limone), purché la temperatura non scenda al di sotto dello zero. La maturazione dei frutti è scalare sia sulla pianta che tra piante diverse (in Sicilia va dalla fine di ottobre fino a metà dicembre). Nei luoghi di origine sono soggette a diversi parassiti, ma controllabili.
Utilizzi
Per l’alimentazione

I frutti possono essere consumati sia allo stato fresco che trasformati in succhi, nettari, confetture. Un guava apporta in media 150 calorie.

Viene utilizzato per la preparazione della goiabada, dessert popolare nelle regioni di lingua portoghese.

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Litchi chinensis Sonn. Litchi

Il litchi, nefelio o ciliegia della Cina (Litchi chinensis Sonn.) è una pianta della famiglia Sapindaceae, unica specie del genere Litchi.
È una pianta tropicale e subtropicale originaria della Cina meridionale e del sud-est asiatico, oggi coltivata in molte parti del mondo. Il frutto fresco ha una polpa bianca, delicata e profumata.

L’albero del litchi è un sempreverde che raggiunge i 10-20 metri d’altezza, e porta frutti che possono raggiungere i 5 centimetri di lunghezza e i 4 di larghezza. L’esterno del frutto presenta una buccia di un colore che va dal rosa al rosso, estremamente scabra. La buccia non è commestibile ma si può togliere con facilità. L’interno del frutto presenta uno strato di polpa dolce, bianca e traslucida. I litchi entrano a far parte di una ampia varietà di piatti e dessert, e in Cina sono particolarmente popolari.

I litchi,oltre che in Cina, sono coltivati anche in Thailandia, Vietnam, Giappone, Bangladesh, Madagascar e nell’India settentrionale. Anche Sudafrica e Stati Uniti hanno una produzione rilevante di questo frutto. Nel Mediterraneo con opportuni accorgimenti può sopravvivere solo nella fascia climatica del limone, preferendo di tale fascia la parte più calda: estese e produttive piantagioni esistono in Israele. In Italia ci sono alcune coltivazioni in Sicilia e in Calabria, ma data la temperatura potrebbe sopravvivere anche in Sardegna, dove non geli.

Il litchi è coltivato da molto tempo, e il primo documento scritto che ne attesta la coltivazione risale al 1059 La coltivazione è cominciata in un’area meridionale della Cina, in Malaysia, e Vietnam. Alberi selvatici crescono ancora nella cina meridionale e sull’isola di Hainan. Ci sono molte storie riguardo all’uso del frutto come prelibatezza alla corte imperiale cinese. Fu per la prima volta descritto e fatto conoscere a occidente nel 1782.

Storia
“荔枝果樹/Albero di Lici” Flora Sinensis di Michael Boym (1657)

La coltivazione del Litchi è cominciata in Cina, Malesia, e Vietnam settentrionale. Alberi selvatici crescono ancora nella foresta pluviale della provincia di Guangdong e sull’isola Hainan. Documenti non ufficiali indicano il litchi come una pianta coltivata almeno dal 2000 a.C.

Nel primo secolo dopo Cristo, litchi freschi erano così richiesti dalla corte imperiale che fu istituito uno speciale servizio di corriere con cavalli veloci affinché portasse frutti freschi dal Guangdong. Ci fu una grande domanda di litchi anche durante la dinastia Song (960-1279), secondo Ts’ai Hsiang, nel suo Li chi pu (Trattato sui Litchi). Tale frutto era anche il preferito della favorita dell’imperatore Li Longji (Xuanzong), Yang Yuhuan (Yang Guifei). L’imperatore faceva trasportare i frutti alla capitale con grandissima spesa.

Il litchi ha attratto presto l’attenzione degli esploratori europei. Juan González de Mendoza nel suo La storia del grande e potente reame di Cina (1585), basato sui racconti dei frati spagnoli che avevano visitato la Cina negli anni 70 del 1500, lodò moltissimo questo frutto:

«Essi hanno una specie di prugna che chiamano lechias, che sono di un sapore incredibilmente gradevole, e mai danneggiano nessuno, sebbene essi ne mangino un gran numero.»

Il litchi fu descritto scientificamente da Pierre Sonnerat (1748–1814) al ritorno dal suo viaggio in Cina e nel sud-est asiatico. Fu allora che fu introdotto a Riunione nel 1764 da Joseph-François Charpentier de Cossigny de Palma. Fu in seguito portato anche in Madagascar che ne è diventato un importante produttore.
Descrizione

Litchi chinensis è un sempreverde che spesso è alto meno di 10 metri, sebbene talvolta superi i 15. La corteccia è grigio-nera, i rami marrone-rosso. Le foglie, composite, misurano tra 10 e 25 cm, a volte di più, con 2-4 paia di foglioline. I fiori spuntano su un’infiorescenza terminale, con molte pannocchie che spuntano sulla cresciuta dell’anno. Le pannocchie crescono in gruppi di 10 o più, raggiungendo una lunghezza di 40 centimetri o più, e portando centinaia di piccoli fiori bianchi, gialli o verdi, con un profumo caratteristico.

I frutti maturano in un tempo compreso tra gli 80 e i 112 giorni, a seconda del tempo, del clima e della cultivar. I frutti raggiungono dimensioni fino ai 5 centimetri di lunghezza i 5 di larghezza, con forme che variano dal rotondo, all’ovoide, ad una forma a cuore. La buccia, sottile ma non commestibile, è coperta di piccole protuberanze appuntite e all’inizio è verde ma con la maturazione diviene rossa o rosato-rossa. La buccia diviene marrone e secca se viene lasciata all’aria aperta dopo la raccolta. La parte carnosa e commestibile del frutto è un arillo, e circonda un seme unico ovale allungato, marrone scuro che ricorda quello delle nespole del Giappone. Il seme non è commestibile e raggiunge le dimensioni di 3,3 cm di lunghezza e dai 6 mm ad 1,2 cm di larghezza. Alcune cultivar producono un’alta percentuale di frutti con un seme abortito, molto più piccolo della norma, chiamato lingua di pollo. Questi frutti generalmente sono fatti pagare un prezzo maggiore, avendo una percentuale di polpa più alta.

La polpa del frutto ha un delicato profumo e sapore di uva moscato e rosa.

assonomia

Litchi chinensis fu descritto dal naturalista francese Pierre Sonnerat nel suo Voyage aux Indes orientales et à la Chine, fait depuis 1774 jusqu’à 1781 (1782).

Ci sono tre sottospecie, riconoscibili dalla disposizione dei fiori, dallo spessore dei rami, dal frutto e dal numero degli stami.

Litchi chinensis subsp. chinensis è l’unico litchi che ha importanza commerciale. Cresce selvatico nella Cina meridionale, in Bangladesh, nel Vietnam settentrionale, e in Cambogia. Ha rami sottili, i fiori hanno generalmente sei stami, i frutti sono lisci o con protuberanze fino a 2 millimetri.
Litchi chinensis subsp. philippinensis (Radlk.) Leenh. È una pianta selvatica comune nelle Filippine e in Papua Nuova Guinea che viene coltivata solo raramente. Ha rami sottili, 6-7 stami, frutti ovali con protuberanze spinose lunghe fino a 3 mm.
Litchi chinensis subsp. javensis. È conosciuta soltanto in coltivazione, in Malesia e Indonesia. Ha rami spessi, fiori con un numero di stami variabile da sette a undici, e frutti lisci con protuberanze fino ad 1 mm.

Cultivar

Ci sono moltissime cultivar di litchi, spesso con una confusione notevole in merito al loro nome e alla loro identificazione. Inoltre la stessa cultivar in climi distinti può produrre frutti assai diversi. Alcune cultivar poi hanno anche sinonimi diversi in diverse parti del mondo. Parte della difficoltà nell’attribuire un nome alle varietà di litchi comunque è imputabile alla trascrizione fonetica dei nomi delle cultivar cinesi, che per l’alfabeto latino non si presenta sempre semplice o univoca.

I paesi del sud est asiatico, assieme all’Australia, usano i nomi cinesi originali per la maggior parte delle cultivar, ma questo non accade ovunque. In India vengono coltivate più di una dozzina di cultivar diverse. In Sud Africa è coltivata principalmente la cultivar Mauritius. La maggior parte delle cultivar che si trovano negli stati uniti sono state importate dalla Cina, con l’eccezione della Groff, che è stata sviluppata alle Hawaii.

Le cultivar più popolari in Cina sono: Sanyuehong, Baitangying, Baila, Shuidong, Feizixiao, Dazou, Heiye, Nuomici, Guiwei, Huaizhi, Lanzhu, e Chenzi. In India tra le altre cultivar si coltiva anche la Shahi (che ha la più alta percentuale di polpa), Dehra Dun, Early Large Red, Kalkattia, Rose Scented.

In Italia le poche piante che si trovano in commercio appartengono generalmente ad una di queste varietà:

Kway Mai Pink: È conosciuta anche come Bosworth 3. I frutti sono molto saporiti, anche se sono relativamente piccoli. La buccia è rosa. La produzione del frutto è regolare.
Brewster: nota anche come Chen-Tze o Chenzi. Fu introdotta in Florida dalla Cina tra il 1903 e il 1906 da W.M. Brewster. Frutto grosso, a forma più o meno conica. I semi sono piuttosto grossi (in proporzione al frutto) e non formano spesso lingue di pollo[4]. La pianta tende a produrre irregolarmente, ad anni alterni.
Sweetheart: Sweetheart è un marchio commerciale registrato per questa cultivar. La produzione di frutta di questa cultivar è regolare e abbondante. I frutti sono grandi e tutti con lingue di pollo.
Tai-so: o Tai-tsao. È coltivata specialmente nei dintorni di Canton. Il frutto ha un colore rosso acceso mentre la polpa è soda, croccante e molto dolce. Il frutto gocciola succo quando si rompe la buccia. La maturazione del frutto è precoce.

Coltivazione

I Litchi sono coltivati abbondantemente in Cina e anche altrove, come in Brasile, Sud-Est Asiatico, Pakistan, Bangladesh, India, Giappone meridionale, e più recentemente in California, Hawaii, Texas, Florida,[12] nelle aree più umide dell’Australia orientale, in Madagascar e nelle regioni sub tropicali del Sudafrica, in Israele e anche in Messico.

In Italia solo recentemente si assiste a timidi tentativi di coltivazione in Sicilia, nonostante la pianta possa crescere “a partire” dalle zone in cui è coltivato al meglio il limone, …e con temperature superiori. In tal caso è ovvia la necessità di irrigazioni, dato il clima mediterraneo secco in estate.

La pianta richiede un clima tropicale o subtropicale, che sia caldo ma che presenti anche una stagione fredda senza gelate o con leggere gelate che non vadano sotto i -4 °C (pena la morte della pianta), e una estate calda, umida, piovosa.

In fase di fioritura è sensibile a sbalzi di temperatura ed umidità. La crescita migliore si ha su terreni ricchi, profondi, ben drenati, abbondanti in materia organica (quindi non calcarei). Una ampia scelta di cultivar è disponibile, con varietà a fruttificazione precoce o tardiva, le prime più adatte a climi freddi, le ultime a climi più caldi. Dato l’aspetto della pianta non è strano vederla utilizzata come pianta ornamentale.

I litchi sono venduti generalmente nei mercati asiatici, ma negli ultimi anni è possibile vederli anche nei supermercati e nella grande distribuzione. La buccia diventa marrone scuro quando il frutto è refrigerato, ma il sapore non ne viene influenzato: la versione in scatola invece viene venduta per tutto l’anno, ma i frutti inscatolati perdono parte del loro profumo. Il frutto può essere seccato anche con la buccia intatta, e in tal caso diviene marrone scuro.

Secondo il folklore un litchi che non produce può essere cercinato, il che dovrebbe portare ad un aumento della fruttificazione.

Riproduzione

I litchi di norma non si riproducono da seme, salvo nel caso di una selezione mirata ad ottenere nuove varietà. Inoltre una caratteristica desiderabile di una cultivar è avere molti (possibilmente tutti) i semi sotto forma di lingue di pollo, quindi abortivi e non utilizzabili per la riproduzione. Le piante nate da seme inoltre, in aggiunta al fatto ovvio di non mantenere le caratteristiche delle piante madri, e ad avere la possibilità di frutti di qualità più scadente, richiedono molti anni per cominciare a fruttificare. Un’attesa di 10 anni tra la semina e la prima fruttificazione è normale, ma a volte passano anche 25 anni. Tutti questi limiti rendono la riproduzione da seme un pessimo modo per propagare i litchi.
Talea

Le talee di litchi possono attecchire, ma l’attecchimento non è semplice. Generalmente le talee per avere percentuali alte di attecchimento richiedono una nebulizzazione continuativa con appositi macchinari mentre vengono coltivate in pieno sole e concimate adeguatamente.
Innesto

L’innesto del litchi è particolarmente difficile. Il cambio si attiva contemporaneamente su tutta la superficie del tronco solo per un brevissimo tempo. È sempre stata considerata una pianta estremamente difficile da innestare, indipendentemente dal metodo scelto. I risultati migliori si sono avuti usando semenzali particolarmente giovani.
Margotta

La margotta è il metodo principale attraverso il quale vengono riprodotte le piante di litchi. È praticato da secoli: nella sua versione più antica si realizza cercinando un ramo e lasciandolo a guarire uno o due giorni, per poi applicare un impacco di fango e paglia al punto dove è stata praticata la cercinatura. L’impacco viene fasciato da un sacco e si provvede a tenerlo umido per un centinaio di giorni con annaffiature regolari. Dopo questi giorni se il ramo ha formato radici si recide e si pianta.

Le margotte moderne hanno sostituito al fango e alla paglia lo sfagno e ai sacchi la plastica: in questo modo si accorciano anche i tempi necessari all’emissione di radici (rendendo necessarie solo sei settimane). I rami migliori per la formazione delle radici sono, secondo uno studio messicano, quelli con un diametro compreso tra 15 e 20 mm, esposti al sole. È comunque possibile prelevare rami grossi fino a 10 cm di diametro.

Le margotte dopo essere state distaccate dall’albero richiedono un periodo più o meno lungo di ricovero in un ambiente ombroso e umido fino a che l’apparato radicale non sia ben sviluppato. Una volta che questo sia accaduto, comunque, le piante reagiscono bene, cominciando a produrre dai 2 ai 5 anni dopo il distacco dalla pianta madre, raggiungendo il massimo della produzione dopo 20-40 anni e producendo abbondantemente per oltre un secolo.
Proprietà nutrizionali

Valore calorico: 55-60 calorie per 100 grammi.

Il litchi contiene in media 72 mg di vitamina C in 100 grammi di frutta.[13] In media nove litchi bastano per soddisfare il fabbisogno quotidiano di vitamina C di un uomo adulto.

Una tazza piena di litchi fornisce, tra le altre cose il 14% del fabbisogno quotidiano di rame, il 9% di fosforo, e il 6% di potassio per una dieta di 2000 chilocalorie.

Come molti alimenti vegetali i litchi hanno pochi grassi saturi, poco sodio e sono completamente privi di colesterolo. I litchi hanno una quantità moderata di polifenoli, comunque maggiore, secondo uno studio francese, di molti altri frutti analizzati. La maggior parte dei polifenoli comunque tende a deteriorarsi col passare del tempo, quindi è meglio consumare il frutto il prima possibile.

Nella medicina tradizionale cinese il litchi è un frutto con proprietà calde e si sostiene che un eccessivo consumo di litchi possa, in casi estremi, portare a svenimenti o eruzioni cutanee.
Litchi chinensis
Usi
Per gustarne a pieno il sapore il frutto può essere consumato fresco al naturale. Comunque si adatta anche molto bene a numerose ricette, con macedonia, aggiunto ai cocktail di spumante o rum, in sorbetti.

 

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Macadamia

Macadamia (F. Muell., 1857) è un genere di piante perenni della famiglia delle Proteaceae che comprende nove specie. Di queste sette sono native dell’Australia orientale, una della Nuova Caledonia e una (Macadamia hildebrandii) dell’Indonesia (Sulawesi).

Il nome del genere è un omaggio allo scienziato e uomo politico John Macadam (1827-1865), collega del botanico Ferdinand von Mueller che le descrisse per primo.
Descrizione

Sono piante sempreverdi che sviluppano un’altezza compresa tra i 6 e i 40 m. Le foglie sono unite in gruppi da 3-6, hanno una forma ellittica, sono lunghe da 6–30 cm e hanno una larghezza tra i 2 e i 13 cm. I fiori sono prodotti in grappoli della lunghezza variabile tra i 5–30 cm, mentre i singoli fiori sono lunghi circa 10–15 mm, con una colorazione tra il bianco-rosa-porpora, con quattro tepali.
Coltivazione e sfruttamento

Solo due specie di Macadamia producono frutti (detti Noce macadamia) di rilevanza commerciale, la M. integrifolia e la M. tetraphylla. Alcune specie addirittura producono frutti non adatti al consumo umano, in quanto tossici (M. whelanii e M. ternifolia); la tossicità è dovuta alla presenza di un glicoside. La componente tossica comunque può essere rimossa seguendo un processo di lisciviazione, che viene praticato anche dagli indigeni australiani, i quali utilizzano tutte le specie di Macadamia.

Le due specie adatte all’alimentazione vennero scoperte nelle foreste sud-orientali dell’Australia, più precisamente sul Monte Bauple nel Queensland australiano. Per questo, un altro nome di queste piante è “Bauple nuts” (noci di Bauple). La Macadamia è l’unica pianta alimentare nativa dell’Australia, che sia prodotta ed esportata in quantità significative.

Infatti il primo commercio delle Noci Macadamia venne organizzato attorno al 1880 da Mr. Charles Staff a Rous Mill, 12 km a sud est di Lismore, nel Nuovo Galles del Sud.

La Macadamia comunque non viene sfruttata industrialmente fino al raggiungimento dell’età di 7-10 anni ma, una volta che incomincia a produrre frutti, è redditizia anche per 100 anni. Le Macadamia preferiscono terriccio fertile, ben drenato. Richiedono inoltre un’elevata quantità d’acqua (le zone d’origine riportano piovosità medie comprese tra 1000–2000 mm annui), la resistenza al freddo è limitata ai circa 10 °C; anche se un albero adulto può sopportare brevi esposizioni a temperature prossime allo zero, la temperatura ottimale è di 25 °C. Le radici sono superficiali, quindi gli alberi sono soggetti a spezzarsi e cadere durante i temporali o in caso di forti raffiche di vento; inoltre soffrono particolarmente Oomiceti dannosi come Peronospora, che possono provocare il collasso dell’apparato radicale. Fuori dall’Australia, la produzione commerciale viene praticata alle Hawaii (che è il più grosso produttore dopo l’Australia), Brasile, California, Costa Rica, Israele, Kenya, Bolivia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Malawi.
Curiosità

Le noci macadamia, pur essendo commestibili per l’uomo, sono tossiche per i cani e per i gatti. La tossicità è manifestata da debolezza, unita all’incapacità di reggersi sulle zampe fino a 12 ore dopo l’ingestione. Le condizioni si normalizzano generalmente entro le 48 ore dall’ingestione. L’intossicazione casuale in natura è impossibile, dato che la polpa della noce è contenuta in un guscio durissimo.

Gli alberi vengono anche utilizzati come piante ornamentali nelle regioni subtropicali per la loro chioma folta e compatta e per i fiori molto belli.

Secondo uno studio del 2019, circa il 70% delle noci macadamia prodotte nel mondo (quelle prodotte dagli alberi coltivati nelle Hawaii) deriva geneticamente da un singolo albero di Gympie, un piccolo villaggio nel Queensland in Australia. Da questo albero, alla fine del XIX secolo, Robert Jordan raccolse una manciata di semi che successivamente piantò in un terreno nei dintorni di Honolulu, dando così avvio a una larga diffusione.

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Musa L. spp. Banana

Il termine banana indica la falsa bacca della pianta del banano, originario dei paesi con clima tropicale nel Sud-Est Asiatico (Malesia, Indonesia e Filippine). Famiglia delle Musaceae. Il frutto si sviluppa (nella specie e nelle varietà commestibili) in una serie di grappoli. Le banane pesano tipicamente 90-200 g (circa il 20% del peso è da attribuire alla buccia), benché questo peso vari considerevolmente fra le differenti cultivar. Tipicamente consumato crudo, in alcune tradizioni viene consumato anche cotto.

Quasi tutte le moderne banane partenocarpiche utilizzate a scopo alimentare provengono dalle specie Musa acuminata e Musa balbisiana. Il nome scientifico delle banane è Musa acuminata, Musa balbisiana o l’ibrido Musa acuminata × balbisiana, a seconda della costituzione del loro genoma. I vecchi nomi scientifici Musa sapientum e Musa paradisiaca non sono più in uso.

Nella cultura popolare e nel commercio con “banana” di solito si riferisce alle banane utilizzate come frutta, mentre le cultivar di Musa con frutti più duri e ricchi d’amido vengono talvolta chiamate “platani”, un prestito dello spagnolo plátano. Questa distinzione tuttavia è puramente arbitraria; le parole platano e banana sono spesso intercambiabili quando il tipo di frutto è desumibile dal contesto. In Italia possono sopravvivere alcune cultivar di banana. In particolare la cultivar comune di Sicilia è abbastanza rustica in Sicilia, dove riesce a portare a maturazione i frutti.

Etimologia

La parola banana potrebbe venire dall’arabo banan, che significa “dito”, ma si ritiene più probabile che derivi da una lingua dell’Africa occidentale subsahariana, forse dalla parola della lingua wolof banaana.

Intorno al 1516 la pianta di banana fu introdotta dai portoghesi in America dall’Africa. In quell’occasione la parola entrò a far parte della lingua portoghese e della lingua spagnola. La banana, che non era ancora stata importata in Europa, veniva descritta nel 1601 come “il frutto che profuma di rosa”.

Biologia

Descrizione

La pianta di banana è la più grande pianta erbacea dotata di fiore. Le piante sono generalmente alte e robuste e spesso sono scambiate per alberi ma il loro fusto principale è in effetti uno pseudofusto che cresce fino a 6-7 metri a partire da un bulbo-tubero. Ogni pseudofusto può produrre un singolo casco di banane. Dopo la fruttificazione lo pseudofusto muore ma polloni laterali possono svilupparsi. Molte varietà di banane sono perenni.

Le foglie sono disposte a spirale e possono crescere fino a 2,7 metri di lunghezza e 60 centimetri di larghezza. Sono facilmente lacerate dal vento, col risultato di apparire spesso sfrangiate.
Infiorescenza di banana; si osservano le brattee (rosse) i fiori (gialli) e le future banane (verdi).

Ogni pseudofusto generalmente produce una singola infiorescenza, nota anche come cuore di banana (qualche volta ne vengono prodotte più di una; una pianta eccezionale nelle Filippine ne ha prodotte cinque).[8] L’infiorescenza contiene molte brattee (a volte chiamate scorrettamente petali) tra le proprie file di fiori. I fiori femminili (che possono svilupparsi in frutti) appaiono in file più in alto sul fusto, rispetto a dove spunteranno i fiori maschili. L’ovario è infero, significa quindi che i piccoli petali e le altre parti del fiore sono situate in cima all’ovario.

I frutti di banana si sviluppano dal cuore di banana, in una grande massa pendula, fatto di file di frutti (chiamate mani), con fino a 20 frutti per fila. La massa dei frutti è nota come casco, comprendendo 3–20 mani, e può pesare 30–50 kg. I singoli frutti maturano con il fiore rivolto verso l’alto, non verso il basso.

I frutti individuali di banana (comunemente noti come banane o dita) pesano in media 125 grammi, dei quali circa il 75% è acqua e il 25% sostanza secca. Sono costituiti da uno strato protettivo esterno (una buccia o pelle) con numerosi lunghi e sottili fili (il floema), che corrono lungo tutta la lunghezza tra la buccia e la parte interna commestibile. La parte interna della comune varietà di banane da dessert si divide facilmente lungo la sua lunghezza in tre parti distinte che corrispondono alle parti interne dei tre carpelli.

Il frutto è stato rappresentato come una bacca cuoiosa. Nelle varietà coltivate i semi sono piccoli fino quasi al punto della non esistenza; i loro resti sono piccoli puntini neri all’interno del frutto.
Due banane con pera e mela. Le piccole macchie marroni sulla buccia mostrano che questi due frutti sono a uno stadio perfetto di maturazione e ideali per il consumo.

Il sapore e la struttura di molti tipi di banane sono influenzati dalla temperatura a cui maturano, e dal grado di maturazione: i frutti fatti maturare per più tempo e a temperature maggiori avranno minore consistenza e saranno più dolci rispetto a quelli più acerbi e cresciuti in ambiente più rigido o ventilato, che saranno quindi più turgidi e meno saporiti. Il colore della polpa evolve dal verde verso il giallo e, in avanzato stato di maturazione, tende a manifestare chiazze marroni corrispondenti ad accumuli di zuccheri. Il livello di maturazione è visibile anche dal colore della buccia: tendente al verde nelle banane acerbe, al giallo scuro con piccole chiazze marroni in quelle molto mature, al giallo acceso nelle altre (quelle di maggior diffusione in ambito commerciale).

Le banane maturano generalmente nella stagione primaverile/estiva del luogo in cui si trovano (l’emisfero meridionale). È nota la tendenza di questo frutto a maturare anche dopo essere stato colto dalla pianta: questo processo è dovuto all’emissione di etilene da parte della banana stessa e caratterizza in generale tutti i cosiddetti frutti climaterici (anche se nel caso della banana il fenomeno è particolarmente marcato). Il fenomeno è accelerato dalle temperature elevate, che influiscono sulla maggiore produzione di etilene, dalla ridotta ventilazione e dalla presenza di altri frutti climaterici, quali mele, pomodori o altre banane, nelle vicinanze. In alcuni processi industriali, le banane vengono messe in ambiente non ventilato e a contatto con etilene prodotto artificialmente proprio per velocizzare la maturazione e ottenere così frutti più dolci in minor tempo.

Le banane sono naturalmente lievemente radioattive, più di quanto lo siano generalmente gli altri frutti, a causa del loro alto contenuto di potassio, e di conseguenza del relativamente abbondante contenuto di potassio-40, che si trova naturalmente mischiato col potassio. Qualche volta ci si riferisce alla dose equivalente a una banana di radiazione per far comprendere i livelli di rischio della radioattività.
Sistematica

Generalmente la classificazione moderna delle cultivar di banana segue il sistema di Simmond e Shepherd. I nomi botanici accettati per le banana sono Musa acuminata, Musa balbisiana o Musa acuminata × balbisiana, a seconda del loro retaggio genetico.

Per una lista di cultivar classificate col nuovo sistema vedi: Cultivar di banana.
Parassiti e malattie della banana

A causa della limitata diversità genetica, le banane coltivate sono soggette a varie malattie e attacchi di parassiti come la Sigatoka Nera, e nuovi ceppi della malattia di Panama, causata dal fungo Fusarium.

La propagazione vegetativa (essenzialmente dovuta alla mancanza di semi vitali nelle banane commercializzate) ha provocato la diffusione di malattie virali lungo le aree di coltivazione delle banane. Le malattie virali delle banane commercialmente rilevanti includono i badnavirus che sono responsabili della malattia delle righe nere o cercosporiosi. Si pensava che questa malattia derivasse dal DNA di un virus integrato nel genoma della specie Musa balbisiana, una delle specie selvatiche che ha contribuito a molte delle specie coltivate nel ventunesimo secolo. La malattia dalle righe nere della banana può presentare vari sintomi, oppure può averne pochi o addirittura nessuno sulla pianta di banana infettata se sono curate e trattate con abbondante fertilizzante. Il Banana Bunchy Top Virus (BBTV) è il virus più distruttivo in Asia e ci sono solamente due metodi per controllarlo: sradicamento delle piante infette e controllo degli afidi vettori che diffondono l’infezione.
Valori nutrizionali

Le banane contengono circa il 75% di acqua, il 23% di carboidrati, l’1% di proteine, lo 0,3% di grassi, e il 2,6% di fibra alimentare (questi valori variano a seconda delle diverse coltivazioni di banane, del grado di maturazione e delle condizioni di crescita).

La polpa della banana, essendo ricca di vitamina A, vitamina B1, vitamina B2, vitamina C, vitamina PP e, seppur in misura minore, di vitamina E, di sali minerali (calcio, fosforo, ferro e potassio) e di carboidrati, ha proprietà nutrienti, ri-mineralizzanti e stimolanti per la pelle. La banana contiene anche la vitamina B6, che favorisce il metabolismo delle proteine. È opinione comune che la banana sia un cibo particolarmente ricco di potassio, in realtà il contenuto medio di potassio della banana è di circa 350 mg per ogni 100 g di parte edibile, molto inferiore ad esempio ai 570 mg[18] di una patata lessa o al forno.
Aspetti medici

Per la presenza di proteine allergizzanti nel frutto (Ba 1, Ba2 e Mus XP 1), la banana può dare luogo ad allergie alimentari.

Possibile estinzione

Entro il prossimo decennio[ovvero quando?], la banana commestibile potrebbe estinguersi. La banana Cavendish, consumata in tutto il pianeta, pecca di scarsa diversità genetica che la rende vulnerabile a malattie quali:

Malattia di Panama, causata da funghi terricoli, che cancellò la varietà Gros Michel (Big Mike) negli anni cinquanta.
Sigatoka Nera, un’altra malattia provocata da funghi che ha raggiunto le proporzioni di un’epidemia mondiale.
Peste che invade le piantagioni e le fattorie in America Centrale, Africa e Asia.

Una nuova variante patogena, razza tropicale 4, affligge le coltivazioni di Cavendish nel sudest asiatico ed è per questo alla radice dei problemi riguardanti i commerci di esportazione. La diffusione della razza tropicale 4 in America potrebbe avvenire se gli insetti cosiddetti succhiatori di banane infette vi sbarcassero oppure se del terreno infestato fosse trasportato dall’Asia; entrambe le cose sono strettamente proibite sia nei paesi produttori sia in quelli esportatori.

La varietà Gros Michel (Big Mike) è stata una delle prime a essere coltivata. Come già detto, fu cancellata dalla malattia di Panama negli anni cinquanta. La Gros Michel era molto adatta a essere esportata nei paesi extra-tropicali. Maggiore cura è richiesta per il trasporto della Cavendish.

Storia.

La diffusione del banano avvenne nell’Asia sud-orientale in epoca preistorica. Ancora nei primi anni 2000 si trovano molte specie di banane selvatiche in Nuova Guinea, Malaysia, Indonesia e Filippine.

Recenti prove archeologiche e paleoambientali nelle paludi del Kuk, nella Western Highlands Province della Papua Nuova Guinea suggeriscono che la coltivazione della banana risalga almeno al 5000 a.C. e forse anche all’8000 a.C. Ciò farebbe degli altopiani della Nuova Guinea il luogo in cui il banano fu domesticato. È probabile che altre specie di banani selvatici siano stati domesticati successivamente in altre zone dell’Asia sud-orientale.

Le foglie di banana, grandi, flessibili e impermeabili, sono usate come ombrelli e per avvolgere cibi.

La superficie interna della buccia di banana, infine, può essere strofinata sull’irritazione provocata dall’edera del Canada per abbatterne i sintomi. Inoltre, la pelle della banana veniva utilizzata come medicinale per il trattamento della psoriasi. È possibile inoltre utilizzare la buccia di banana come lucido per scarpe ecologico.
Commercio

Le banane sono tra i frutti più consumati al mondo. Tuttavia, i coltivatori di banane ricavano esigui guadagni. Per questa ragione le banane sono disponibili come articoli del commercio equo in alcuni stati. La banana ha una storia commerciale che incomincia con la fondazione della United Fruit Company alla fine del XIX secolo. Per gran parte del XX secolo, le banane e il caffè hanno dominato le esportazioni dell’America Centrale. Negli anni trenta, le banane e il caffè hanno contribuito per il 75% al volume delle esportazioni regionali. Più tardi, nel 1960, i due raccolti hanno realizzato il 67% delle esportazioni della regione. Sebbene i due prodotti crescano nelle stesse regioni, non hanno la tendenza a disturbare il mercato a vicenda. La United Fruit Company basava i suoi affari quasi interamente sul commercio di banane, visto che il commercio di caffè era troppo difficile da controllare. Il termine banana republic è stato largamente utilizzato per i paesi della regione centro americana, ma in senso strettamente economico è applicabile solo a Costa Rica, Honduras e Panama, che sono state effettivamente repubbliche delle banane, ossia paesi la cui economia è guidata dal commercio delle banane.

 

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Eriobotrya japonica (Thunb.) Lindl. Nespolo

Eriobotrya japonica (Thunb. Lindl. 1821) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rosacee e al genere Eriobotrya, coltivata a scopo ornamentale e per il suo frutto conosciuto prevalentemente con il nome volgare di nespolo del Giappone. Non va confuso con la nespola comune o germanica, di più antica coltivazione in Europa, che è invece il frutto di un’altra rosacea, botanicamente nota come nespolo comune, Mespilus germanica, oggi raramente coltivata e commercializzata.
Origine

Si ritiene che il nespolo del Giappone sia originario della Cina, dove il frutto prende il nome di pipa o pipa guo, cioè frutto del pipa, in riferimento allo strumento musicale tradizionale, del quale, appunto, ricorda la forma. In Cina è presente una notevole gamma di varietà, in tutte le taglie, anche a frutto piccolo ed a minore interesse commerciale. In giapponese il frutto è chiamato biwa ed è qui che ha ricevuto la maggior attenzione colturale già in epoca precedente al contatto con l’Europa, con la selezione di diverse varietà che sono di norma a frutto più grande di quelle selvatiche cinesi. Queste ultime di norma sono a polpa più compatta, mentre quelle giapponesi sono a polpa più acquosa. Il frutto iniziò la diffusione in Europa all’inizio del 1800, il primo esemplare fu impiantato nel giardino Botanico di Parigi nel 1784, ed in seguito, ai Kew Gardens di Londra nel 1787.
Descrizione

Il nespolo del Giappone è un albero di medie dimensioni, fino ad 8-10 metri di altezza ed altrettanto in larghezza, che normalmente è coltivato a dimensioni più modeste. L’albero è latifoglie e sempreverde, le foglie sono molto grandi (lunghezza fino a 25 cm, larghezza fino 10 cm), di consistenza molto robusta, simile al cartone, con superficie dorsale colore verde carico, lucide, mentre al verso sono colore verde pallido, biancastro e fortemente pelose. La pelosità riguarda tutte le parti giovani e non lignificate della pianta.

I frutti del nespolo del Giappone sono delle drupe di colore giallastro chiaro, giallo o arancione, e sono immediatamente eduli. Essi contengono uno, due tre o quattro grossi semi che sono in peso una parte considerevole del frutto. la maturazione avviene in maggio-giugno, mentre la fioritura si ha in dicembre-gennaio.
Coltivazione

La fioritura avviene in inverno, perciò la produzione dei frutti si ha prevalentemente nell’Italia meridionale e lungo la costa tirrenica fino alla Liguria, Turchia, Cipro, Spagna e Portogallo e in altri territori con clima mite, dove le api possono impollinare, sebbene l’albero resista al freddo e sia coltivato anche al nord, come il corbezzolo. Il fatto che l’albero assuma un portamento tondeggiante ed i frutti siano portati all’estremità dei rami rende problematica la raccolta; di norma la conduzione sul terreno e la potatura inducono un portamento seminano o a spalliera che favorisce la raccolta. Addirittura nelle Filippine i nespoli del Giappone sono coltivati a bassa siepe, (non più di due metri di altezza) per evitare i danni recati dai tifoni; essendo infatti una pianta sempreverde con foglie grandi e rigide è soggetta a danni se sottoposta a venti violenti, o al carico della neve in climi rigidi.

Per la riproduzione per seme, i semi devono essere immediatamente seminati, dato che perdono rapidamente la propria germinabilità, disidratandosi. Con i semi è possibile fare un liquore analogo al nocino, il nespolino. I semi del nespolo del Giappone contengono comunque piccole quantità di acido cianidrico (cianuro). i frutti sono dissetanti e rinfrescanti.
Pomologia commerciale

I frutti del nespolo del Giappone hanno in conseguenza della loro maturazione molto precoce (maggio in alcune regioni) la condizione di interessare un periodo di tempo in cui i frutti a conservazione invernale sono in esaurimento, mentre quelli a maturazione estiva non sono ancora maturi e/o non sono presenti a condizioni economiche. Questo fatto, ed il desiderio di anticiparne ancora la vendita per sfruttare al massimo il costo elevato per carenza di concorrenza, porta spesso a raccoglierli e commercializzarli in fase quasi immatura, fatto questo che convince molti consumatori a considerarli come frutti dal normale sapore acido, dato che sono commercialmente disponibili in tale stato.

A completa maturazione e con il leggero rammollimento naturale del frutto, il sapore si completa come pienamente dolce, ma in tale periodo iniziano ad essere presenti sul mercato le primizie di ciliegie e pesche, che sono molto rimunerative per il prezzo che riescono a spuntare, per cui le nespole mature non sono più interessanti economicamente, e di fatto spesso non sono vendute.

il nespolo del Giappone fiorisce in un periodo che va da ottobre a febbraio e la fruttificazione si ha in maggio-giugno. È evidente che la fioritura in tali periodi presuppone un clima sufficientemente caldo in tali periodi, tale perlomeno da permettere la episodica uscita degli impollinatori, come ad esempio api o bombi, che nei climi ad inverno moderato sono appunto presenti nei periodi temperati di tali mesi, in climi rigida la produzione è nulla pur resistendo bene al freddo la pianta di per sè.

Il termine di genere Eriobotrya significa dal greco “grappolo peloso” questo perché i fiori sono raccolti in una infiorescenza a grappolo pelosa, come pure pelose sono le strutture accessorie fiorali (piccioli, calici) e i frutti immaturi. Tali pelosità costituiscono un isolamento dal contatto col vento freddo invernale; questo piccolo espediente permette, con la presenza di liquidi antigelo nei succhi contenuti, di conservare un poco del calore diurno, e permette il superamento di brevi abbassamenti di temperatura al di sotto dello zero centigrado. Per permettere comunque l’impollinazione in una possibile combinazione di clima che sia sufficientemente adatto, il periodo di fioritura è molto lungo.
Avversità

Il batterio Erwinia amylovora è responsabile del fuoco batterico.
Altri usi

È una pianta mellifera, molto ricercata dalle api per il nettare e il polline; il miele si ottiene solo in Sicilia e in zone meridionali dove clima mite e temperature non troppo rigide consentono alle api di uscire e bottinare durante la fioritura, che avviene tra ottobre fino a febbraio. I fiori di nespolo del Giappone sono molto profumati, con un profumo simile a quello del biancospino. È inoltre utilizzata come albero ornamentale in giardini e parchi.

Cultivar

Le cultivar sono spesso a carattere locale e si distinguono per colore e forma. tra quelle di maggior interesse possiamo elencare:

Mogi, proveniente dal Giappone
Tanaka
Early Red, California
Champagne
Precoce di Palermo, Sicilia
Gigante rossa di Ciaculli, Sicilia
Nespolone gigante di Trabia, Sicilia
Nespola di Ferdinando

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Carica papaya L. Papaya

La papaya o papaia, Carica papaya, è una pianta della famiglia delle Caricacee.
Descrizione

Si presenta come un piccolo albero poco ramificato, potrebbe ramificare in caso di ferite, con un fusto alto sino a 5–10 m. Il tronco, anche negli esemplari maturi, ha una consistenza tenera, poco legnosa, e presenta cicatrici prodotte dalla crescita e caduta delle foglie superiori. La linfa è di consistenza lattea e tossica allo stato naturale per l’essere umano, potendo produrre irritazioni allergiche al contatto con la pelle.

Le foglie, disposte a rosetta all’apice del tronco, sono larghe, palmato-lobate, 50–70 cm di diametro[senza fonte].

I fiori sono prodotti all’ascella delle foglie.

La papaya ha una consistenza delicata e una forma oblunga e può essere di color verde, giallo, arancio o rosa. Può pesare fino a 9 kg. Per esigenze di commercializzazione nella maggior parte dei casi non devono pesare più di 500 o 600 g, specialmente nelle varietà di piante nane, molto produttive e destinate generalmente alla esportazione, per essere più trasportabili e durare di più dopo la raccolta fino al momento del loro consumo. La dimensione dei frutti diminuisce in funzione della età della pianta. I frutti e i fiori si trovano in grappoli subito sotto la inserzione dei piccioli delle foglie palmate. La pianta non è esigente in quanto ai suoli, potendo svilupparsi in qualunque terreno abbandonato o perfino in grandi vasi. È una delle piante più produttive in relazione alla sua dimensione perché fiorisce continuamente e ha sempre allo stesso tempo fiori e frutti. Lo sviluppo dei frutti causa la caduta delle foglie inferiori, quindi i frutti sono sempre allo scoperto rispetto alle foglie, esposti alla luce solare.
La specie si presenta naturalmente dioica, però la selezione artificiale ha prodotto specie ermafrodite. La papaia è conosciuta come frutta da consumo, tanto come frutto intero che come frullato e dolce (elaborati con frutta verde bollita con zucchero), e ha alcune proprietà notevoli per facilitare la digestione degli alimenti di difficile assimilazione.
Distribuzione e habitat

È una pianta originaria del Messico, conosciuta e utilizzata in tutta l’America da molti secoli, per quanto oggi si coltivi in molti Paesi di altri continenti, principalmente in Asia e Africa. Prima dell’arrivo degli Europei, in Messico era chiamata Chichihualtzapotl, che in nahuatl significa “frutto dolce (da) balia”, ed era un frutto particolarmente connesso con la fertilità.
Vive in ambienti tropicali (America Centrale e Meridionale e Asia Pacifica) a temperature che non devono mai scendere sotto 0 °C per evitare marciumi.

Nelle Filippine il frutto della papaya è oggetto di coltivazioni industriali di grande rilievo per l’economia del Paese: Di particolare pregio le coltivazioni sull’isola di Guimaras, nota per la grande varietà e qualità delle piante da frutta.

In Italia può essere coltivata sulle coste siciliane e su quelle meridionali e occidentali-meridionali calabresi (da Reggio Calabria a Capo Spartivento): tuttavia a causa delle basse temperature invernali fruttifica solo da aprile a novembre, a differenza delle regioni tropicali dove fruttifica tutto l’anno.
Usi alimentari
Il frutto, di grandi dimensioni, ha un uso simile al melone. In Thailandia il frutto acerbo, tagliato a julienne, serve come base per la som tam (thai: ส้มตํา) nota come insalata di papaya verde. Nelle Filippine, dove gli alberi di papaya sono spesso coltivati nei pressi delle abitazioni, il frutto viene regolarmente consumato fresco e utilizzato come ingrediente per la preparazione di numerosi piatti locali come l’atchara, i lumpia e in diverse ricette di pollo e maiale. Il frutto della papaya è inoltre utilizzato come frutta secca.

Usi medicinali
Avvertenza
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.

Dalla papaia si estrae in medicina la papaina, principio attivo con funzione proteolitica. Contrariamente alla credenza popolare esso non favorisce il dimagrimento, ma la semplice digestione delle proteine. Di questo enzima se ne producono più di 1000 tonnellate annuali nel mondo e viene usato nella fabbricazione di birra, cosmetici e nell’industria alimentare. La papaina è impiegata anche per ammorbidire le carni: nei barbecue si usa il succo che fluisce tagliando la corteccia della papaia verde per versarlo sopra la carne, rendendola molto tenera e succosa.

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Passiflora edulis Sims Passiflora (maracuya)

Passiflora L. è un genere di piante della famiglia Passifloraceae che comprende circa 465 specie di piante erbacee perenni ed annuali, arbusti dal portamento rampicante e lianoso, arbusti e alberelli, alti fino a 5–6 m, originarie dell’America centro-meridionale, con alcune specie provenienti dal Nord America, Australia e Asia.

Il nome del genere, adottato da Linneo nel 1753 e che significa “fiore della passione” (dal latino passio = passione e flos = fiore), gli fu attribuito dai missionari Gesuiti nel 1610, per la somiglianza di alcune parti della pianta con i simboli religiosi della passione di Gesù: i viticci alla frusta con cui venne flagellato, i tre stili ai chiodi, gli stami al martello, la raggiera corollina alla corona di spine.
Morfologia
Le radici generalmente fascicolate, in alcuni casi sono carnose, a volte con produzione di polloni radicali, alcune specie come la Passiflora tuberosa hanno radici tuberose.

Il fusto abbondantemente ramificato, è sottile, talvolta cavo, a sezione rotonda, quadrata, triangolare o poligonale, solitamente di colore verde nei giovani esemplari, ricoperto da corteccia nei soggetti vetusti.

Le foglie sono alterne, di forma, consistenza, dimensioni ed aspetto variabili, con specie a foglie semplici lanceolate, bilobate o palmate con 3-9 lobi, con dimensioni di pochi millimetri come la P. gracillima fino a dimensioni di diversi decimetri come la P. gigantifolia. Nelle specie rampicanti all’ascella delle foglie ci sono gli organi di ancoraggio, a forma di viticci o più raramente appendici ramificate dotate di ventose, come nella P. discophora e nella P. gracillima, o in alcuni casi delle formazioni spinose.

I fiori sono normalmente ermafroditi, ascellari e solitari, raramente riuniti a coppie come nella P. biflora, o riuniti in racemi come si può osservare nella P. racemosa; le dimensioni sono molto variabili in dipendenza della specie, potendo arrivare al diametro di 12–15 cm della P. quadrangularis.
Generalmente hanno tre brattee di varia forma, a volte colorate e dotate di ghiandole nettarifere, il calice più o meno allungato, con 5 sepali, 5 petali a volte assenti; è normalmente presente una corona di filamenti di forma e colore variabile, con 5 filamenti che portano le antere e 3 stili recanti gli stigmi, a volte profumati o con odore sgradevole.

I frutti sono generalmente bacche ovoidali o allungate, ricoperte da un leggero tegumento che, a maturazione, si colora di giallo, viola, blu o nero, a volte con striature gialle o verdi, a volte è una capsula deiscente a maturazione, di varie dimensioni; all’interno del frutto si trova una polpa gelatinosa (arillo) che contiene piccoli semi di forma appiattita, cuoriformi, di colore scuro, coriacei e rugosi.
Le prime notizie di coltivazione in Italia della Passiflora sono riportate nel libro Erbario o Storia generale delle piante del nobile veneziano Pietro Antonio Michiel pubblicato tra il 1553 ed il 1565.

La Passiflora caerulea è l’unica specie coltivata in Italia che sopporta il gelo invernale delle regioni settentrionali, ma nelle regioni centrali e meridionali possono sopravvivere altre varietà, come la passiflora racemosa, di color rosso intenso. Originaria del Sudamerica, vigorosa pianta rampicante con lunghe ramificazioni dotate di robusti viticci che le permettono di ancorarsi facilmente a qualunque supporto, foglie persistenti o semi-persistenti, palmatofite a 5-7 segmenti, di colore verde scuro, fiori larghi anche 8–12 cm, attiniformi, ermafroditi, ascellari e solitari di circa 10 cm di diametro, di colore bianco-verdastro, con 5 petali bianco-rosati, 5 sepali che circondano una doppia corona di filamenti bianchi, blu, purpureo-scuro, lilla o violacei, che a loro volta circondano le antere dorate, 5 stami e gineceo con 3 carpelli dai grossi stimmi; fioriscono nei mesi estivi da giugno a settembre. I frutti sono bacche oblunghe globose eduli, con arillo carnoso contenenti numerosi semi.

Altre specie ornamentali originarie delle zone tropicali del Sudamerica, poco rustiche e coltivate in serra o negli appartamenti sono la P. racemosa, dai fiori rossastri o biancastri riuniti in infiorescenze pendule, che fiorisce da maggio a settembre, la P. edùlis che fiorisce da giugno ad agosto-settembre, la P. trifasciata, la P. quadrangularis che fiorisce da maggio a luglio dai fiori bianco-rosati, la P. violacea che fiorisce in agosto e settembre, e la P. umbilicata con fiori rosso-brunastri.
Uso
Come pianta ornamentale nei giardini per ricoprire muri, recinzioni, pergole; in vaso negli appartamenti o in serra.
Per il consumo dei profumati frutti eduli (maracuie), dal sapore delicato, le specie più coltivate a questo scopo sono: la P. antioquiensis, la P. coccinea, la P. edulis, la P. laurifolia, la P. ligularis, la P. maliformis, la P. membranacea, la P. mixta, la P. mollissima, la P. nitida e la P. vitifolia.
Per le proprietà medicinali.
Finora non sono state scoperte varietà non commestibili, tutte risultano commestibili; in Messico e Sud America si consumano diverse varietà compreso il frutto della passiflora cerulea che ha un sapore più acido e che normalmente si esporta in Europa sotto forma di succo concentrato con zucchero.
Proprietà medicinali
Avvertenza
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico
Le specie utilizzate a scopi medicinali sono la P. caerulea, la P. incarnata e la P. edulis. Se ne utilizzano le parti verdi, ricche di flavonoidi e alcaloidi indolici, maltolo e acidi grassi, raccolte da giugno a settembre e fatte essiccare all’ombra in luogo arieggiato.
Nell’antichità già gli Aztechi utilizzavano la passiflora come rilassante. L’infuso, lo sciroppo e l’estratto fluido hanno proprietà sedative del sistema nervoso, tranquillanti, ansiolitiche, antispastiche, curative dell’insonnia, della tachicardia e dell’isterismo; inducono un sonno fisiologico e un’attività diurna priva di ottundimento. Già ai tempi della prima guerra mondiale, la passiflora fu utilizzata nella cura delle “angosce di guerra”. L’infuso è stato inoltre utilizzato per la psicoastenia. Le caratteristiche farmacologiche della Passiflora incarnata la rendono utile per facilitare, con il controllo del medico, lo svezzamento dagli psicofarmaci.
Metodi di coltivazione
Le specie rustiche come la P. caerulea possono essere coltivate in piena terra o in vaso sui terrazzi, in posizione soleggiata e calda, con terreno fertile e sufficientemente fresco, avendo l’accortezza nelle regioni settentrionali di scegliere zone riparate dai venti freddi e prevedendo nei primi anni di vita una protezione dai geli invernali.

Tutte le specie ornamentali si prestano alla coltivazione in serra o negli appartamenti, richiedono ambienti caldi, luminosi, con una buona umidità nell’aria, concimazioni ogni 15 giorni nella bella stagione, con fertilizzanti liquidi, annaffiature abbondanti; in primavera rinvasare o rinterrare usando terriccio universale; si deve praticare una drastica potatura alla ripresa vegetativa, per mantenere un aspetto compatto alla pianta ed avere robusti getti fioriferi.

La Passiflora non sopporta in alcun modo i ristagni idrici nel terreno, pertanto sia in vaso che in piena terra è necessario aggiungere un po’ di sabbia per migliorare la struttura del terreno al fine di garantire un rapido drenaggio delle acque in eccesso.

La moltiplicazione avviene per talea, propaggine o con la semina.

Avversità
Soffre i geli invernali.
Marciume floreale favorito da esposizione al freddo e da carenze nutritive.
Condizioni ambientali sfavorevoli, come eccessi di umidità o temperatura eccessiva dei locali nella stagione invernale, nelle specie coltivate in appartamento o in serra favoriscono gli attacchi di Cocciniglia oleosa, di Acari, nonché Tripidi e la Mosca bianca.

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Carya illinoensis (Wangenh.) K.Koch Pecan

 

Il pecan (pron. pecàn; Carya illinoensis (Wangenh.) K.Koch) è un albero da frutto e da legno appartenente alla famiglia delle Juglandaceae e al genere Carya, coltivato principalmente nell’America del Nord per la raccolta dei suoi frutti, le noci pecan.
Descrizione

Il pecan è un grande albero deciduo la cui altezza media raggiunge i 20-25 m, ma che può anche arrivare ai 40 m, con una circonferenza del tronco di 6 metri (misurazione effettuata ad un metro d’altezza).

Le foglie sono composte, imparipennate lunghe da 35 a 60 cm, a fillotassi alterna.

I fiori sono unisessuali riunti in infiorescenze anch’essi unisessuali.

I frutti sono drupe ed hanno una forma cilindrica allungata. L’esocarpo esterno (il corrispettivo del mallo della noce) misura da 2 a 3 mm di spessore. L’endocarpo (la parte più interna del frutto) è legnosa. Il frutto viene raccolto a ottobre-novembre.

La noce di pecan, che di fatto è il seme, è di forma variabile, generalmente ovoidale, più o meno allungata; esteriormente ha aspetto liscio e colore bruno; misura da 3 a 4 cm in lunghezza e si attesta sui 2 cm di diametro. La parte edule (seme) è commercializzata spesso all’interno del guscio (che è l’endocarpo, la parte più interna del frutto) ed è circondata da una pellicola di colore rosso chiaro. Il suo sapore assomiglia a quello della noce.
Distribuzione

La specie è originaria della parte orientale degli Stati Uniti d’America (sud degli stati dell’Illinois e dell’Iowa, del Kansas, del Missouri, dell’Oklahoma, del Texas e della Virginia). Si è però adattata e diffusa in tutta la parte settentrionale del continente americano.

Venne introdotta in Europa nel XIX secolo, ma ebbe una scarsa diffusione.

In Italia meridionale è coltivata in piccoli appezzamenti specializzati in Sicilia e nel settore meridionale della Puglia. Le varietà coltivate in Italia sono: Kiowa, Wichita e Shoshoni.
Coltivazione

il pecan è una coltivazione recente: sebbene alberi di pecan selvatici fossero ben noti tra i nativi americani e i primi coloni e fossero mangiati come una prelibatezza, la coltura commerciale del pecan negli Stati Uniti non iniziò fino al 1880.

Il maggior produttore (tra l’80 e il 95% della produzione totale) è rappresentato dagli Stati Uniti, dove si conta un centinaio di varietà. I grandi Stati produttori sono: Texas, Georgia, Alabama, Louisiana e Oklahoma. Inoltre la pianta viene coltivata in Brasile, Australia e Israele.
Curiosità
Nel 1906, il governatore del Texas, James Stephen Hogg, si interessò a questa pianta e nel 1919 il pecan venne dichiarato albero simbolo dello stato.

 

 

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Solanum betaceum Cav. Tamarill

L’albero dei pomodori (Solanum betaceum), conosciuto anche come pomodoro arboreo o tomate de árbol è un arbusto di 3 – 4 m di altezza, con corteccia grigiastra e fogliame perenne, le prime descrizioni storiche lasciano pensare che sia autoctono del Perù, di alcuni luoghi del nord del Cile e dell’Argentina in zone di antiche foreste umide ai piedi della cordigliera delle Ande al giorno d’oggi scomparse. Si coltiva soprattutto in America meridionale (Perù, Colombia, Ecuador, Bolivia e Argentina), ma anche in Europa meridionale e Nuova zelanda.
Il suo luogo di origine preciso ancora non è chiaro, perché si sono identificate piccole popolazioni originali in aree ristrette di Cile, Argentina e Bolivia. Per garantire la conservazione, lo studio e il miglioramento genetico è imprescindibile disporre di campioni selvatici.

Descrizione
Ha foglie alternate, intere, alle estremità dei rami, con picciolo robusto di 4 – 8 centimetri di lunghezza. La lamina fogliare presenta una lunghezza di 15 – 30 centimetri di lunghezza, con forma ovalata, acuminata, di colore verde scuro, un po’ ruvida al tatto. Le foglie giovani presentano una fina pubescenza su entrambe le facce. La nervatura è marcata e in rilievo. I fiori sono piccoli, di 1,3 – 1,5 centimetri di diametro, di colore bianco-rosaceo, disposti in piccoli grappoli terminali. Hanno 5 petali e 5 stami gialli. Fiorisce dopo 8 – 10 mesi dalla semina in maggio-giugno, il frutto è una bacca ovoidale di 4 – 8 centimetri di lunghezza per 3 – 5 centimetri di larghezza, con un lungo pedunculo nel quale persiste il calice del fiore. La buccia è liscia, di colore rosso o arancione a maturità, con striature di colore più chiaro. La polpa è sugosa, con uno spunto acido, di colore arancione-rosso, con numerosi semi. I frutti sono commestibili e si possono consumare crudi in insalata e succhi o cucinati in conserve. La polpa è ricca di ferro, potassio, magnesio, fosforo e vitamine A, C ed E.
Adattamenti e esigenze climatiche
Cresce in climi propri della foresta umida di montagna dell’America meridionale, con temperature tra i 13 e 24 °C, in ambienti dove la precipitazione varia tra i 600 e 1500 millimetri annuali. È molto sensibile alle basse temperature, soffre per i venti intensi e siccità. Richiede suoli franchi arenosi, con buono drenaggio, ricchi in materia organica e trae beneficio dalla concimazione.
I frutti
I frutti si possono conservare anche per 3 mesi a una temperatura che si aggira attorno ai 3 gradi, mantenendo inalterati gusto e proprietà organolettiche.

Usi
Si sa che il frutto possiede un alto contenuto di acido ascorbico. Si può utilizzare sia cucinato sia crudo e si usa per preparare succhi di frutta.

Principali impieghi in cucina

In cucina il tamarillo si presta ad essere consumato fresco, utilizzato per ottenerne un succo, da mescolare volendo al succo di altri frutti, e marmellate.

Il modo migliore per mangiare un tamarillo è tagliare in due parti il frutto e consumarne la polpa con un cucchiaio. In alternativa possiamo cospargerlo di zucchero o di aceto balsamico. La buccia, precisiamo, non è commestibile.

In alcuni paesi questi frutti sono utilizzati a fini prevalentemente decorativi nelle insalate con il radicchio, o in abbinamento alle mele negli strudel. In paesi come la Colombia e l’Ecuador si prepara un succo dolce mescolando succo di tamarillo ad acqua e zucchero.

Moltiplicazione e coltivazione
Si moltiplica per seme, che germinano con molta facilità. Presenta una crescita molto rapida, dando frutti entro un anno dalla semina e continuativamente durante 48 mesi.
Pur non avendo particolari esigenze pedoclimatiche, predilige terreni sciolti e fresch, ben drenati, leggermente acidi e non tollera temperature inferiori a 2-3 °C e superiori a 35 °C che potrebbero causare gravi danni.
La pianta viene propagata per seme o per talea. Il trapianto in pieno campo prevede sesti di m 1,5 x 1. L’impianto dura mediamente 6-8 anni.
La potatura e’ necessaria per diradare l’eccessiva vegetazione. Nei mesi estivi necessita di interventi irrigui. La concimazione deve prevedere un apporto di circa 150 kg/ha di azoto, 50 di fosforo e 80-100 di potassio (in due o tre volte).
Tassonomia
Il Solanum betaceum è stato descritto da Antonio José di Cavanilles e pubblicato negli Annali di Storia Naturale 1: 44–45. 1799.

Etimologia
Solanum: Nome genérico che deriva del vocablo latino equivalente al greco στρνχνος (strychnos) per designare il Solanum nigrum (la “Erba mora”) — e probabilmente altre specie del genere, inclusa la melanzana —, già impiegato da Plinio il Vecchio nella sua Storia naturalis (21, 177 e 27, 132) e, prima ancora, da Aulus Cornelius Celsus in Di Re Medica (II, 33). Potrebbe essere relazionato con il Latino sole, per il fatto che queste piante prosperano in luoghi soleggiati.

betaceum: vocabolo latino che significa “simile alla barbabietola”

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